Immagini che ci guardano
Capita che John Derian, destinato a diventare l’artista del découpage più originale di questi decenni, un giorno del 1983, si trovi a girovagare in un mercatino dell’usato a Salem (Massachusets). E qui, tra le tante cose che gli interessano, trova, e compra, una scatola che contiene alcuni vecchi libri illustrati. Niente di che, direte: è una storia come tante. Sì, ma invece è una storia unica. Perché unico è l’“occhio che guarda”: il suo, così affascinato, così abituato, e così “scafato” da accorgersi della bellezza imprevista o sottovalutata che gli capita di avere sotto il naso. Inizia, ovviamente, a collezionare libri, ritagli, immagini, taccuini, manuali, disegni, prove di pittori, quadernetti, lettere. Tutto è trattato come immagine pura e delle oltre mille immagini repertoriate in questi anni, e dopo tutto questo tempo, Derian ha finalmente deciso di selezionarne 300: quelle che lo hanno ispirato e lo ispirano di più per realizzare i suoi fantastici prodotti (vasetti, posa oggetti, pesi ecc.) per i quali è diventato famoso. Naturalmente è nato un libro: di nuovo, un perfetto coffe table book (Artisan, New York, pagg. 368, $ 75,00), che è però una meraviglia ed è destinato a suscitare in noi lettori (anzi, guardatori) meraviglia. Infatti, in copertina, c’è solo un enorme occhio, nessuna parola, nemmeno il titolo – semplicemente perfetto, Picture Book –: e quell’occhio è il nostro. È la vera richiesta che ci fa Derian: saper guardare, conservare la meraviglia dello sguardo. E, di più, applicarla a tutto: ecco nel retrocopertina una riproduzione dell’orbe terracqueo. E le parole, per una volta, e non a caso, sono “confinate” alla sola, sobria, introduzione di Anna Wintour (la direttrice di «Vogue», una addicted dei lavori di Derian) e al piccolo racconto che Derian stesso dedica alla sua collezione. Poi: immagini, solo immagini.
Non immagini qualsiasi, però. Stiamo parlando di immagini per lo più stampate e dell’effetto che crea un’immagine che sia vissuta: la carta ingiallita, con le macchie e, a volta, le ditate; immagini prese da libri d’epoca (con Sette-Ottocento a far da padrone),erbari, manuali di flora e botanica; ed ecco pesci, ritratti, fiori, insetti, cavalli, rane, carote, corpi umani, labirinti, accostamenti semplici di colore, giardini, pistilli, peonie trascoloranti, mele, scritte; scritte tipografiche, calligrafie, cancellazioni, biglietti d’amore, d’occasione, tulipani, ritagli, galline, ornamenti, geometrie, cigni e fiori; fiori e ancora fiori, farfalle, coccinelle e uccellini, rondini, gufi, pavoni, occhi, lenti, e ancora occhi. Una vertigine ipnotica: ogni sfoglio un ricadere nella stessa sensazione di bellezza. La realtà è che queste immagini ci comunicano molto più che sé stesse e la loro indiscutibile bellezza intrinseca. Ci comunicano forse il “piacere di saperlo” (ricordate?), il piacere di vederlo, e il piacere di riconoscerlo: una nostalgia educativa – le tavole dei nostri sussidiari, i poster didattici delle pareti delle scuole – che rimanda a un’epoca nella quale le immagini erano merce rara. Ecco: i ritratti naturalistici o anche le deviazioni surreali (e ce ne sono) erano un modo per arricchire la nostra esperienza di vita. Lo sappiamo e tendiamo a dimenticarlo, in questa epoca travolta dalle immagini: sono una risorsa preziosa della nostra identità. Come le parole, come i libri: quegli strumenti unici che in quanto a unire parole e immagini non hanno rivali da secoli a questa parte.