Il Sole 24 Ore

Um bilicus Siciliae

- di Gualtiero Gualtieri

Èil giusto periodo, andateci. Sono tre chilometri di campagna nei pressi di Calascibet­ta, l’antico q’alat shibet, il castello sulla vetta. Il cielo è una zuppa blu. Il tepore si spande come da una bolla amniotica in cui sostano i primi profumi della vita nuova – i ranuncoli selvatici, i primi papaveri, le virgole superstiti della fioritura, quella dei mandorli – e davanti agli occhi del viandante s’apparecchi­a la scena di 288 fori sulla roccia.

Fatela questa gita. Primavera lo impone. È la necropoli di Realmese. Parla di morte e però è una pietra di squillante promessa: l’immancabil­e passaggio di Kore che torna dall’Ade – dalle viscere di Etna, regina qual è dell’oltretomba – per percorrere i feudi del grano ancora verdi fino ai piedi delle bianchissi­me rocce, veri ossari, un’ingiunzion­e di malinconia nel forte fuoco del giorno.

Non c’è da procurarsi biglietti – non si rischia di trovare chiuso già il sabato pomeriggio per non sforare con gli straordina­ri per i custodi – non ci sono eventi tipo «legalità-tà-tà»”.

Andateci. Ed è una trazzera regia quella che vi porta a Realmese – ben più chic di una qualunque strada – ed è una delle dodici vie a raggiera segnata dai sapienti borbonici per i quali ogni luogo doveva avere sbocco a mare. E figurarsi cosa può essere questo, di luogo – umbilicus Siciliae, un patrimonio che si riversa nel mondo – dove le uniche onde sono quelle del frumento.

Andateci, dunque. Magari troverete solo una coppia di francesi – due archeologi – che auscultano quei buchi di due diverse epoche (protostori­ca ed arcaica, fino al periodo bizantino) ma quando Kore vi saluterà portando i boccioli coglietene uno per Luigi Bernabò Brea, capo della campagna di scavi, e uno per Ibn Hamdis, il poeta, che qui scrisse il suo verso: «Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei».

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