Commercio estero strumento della politica
It’s the politics, stupid! Se qualcuno immaginasse che dietro le strategie commerciali degli ultimi settant’anni ci siano elaborate analisi economiche - magari basate sull’eternamente incompreso teorema dei vantaggi comparati - si sbaglierebbe molto. È tutta politica, solo politica. La scienza economica ha solo garantito - ha tentato di farlo... - che le scelte dei governi non avrebbero creati danni collaterali troppo gravi.
È stata politica, anzi geopolitica, la scelta di creare un’unione (commerciale, all’inizio) tra i Paesi europei nel ’57, o di allargare a tutto il mondo, dopo la caduta della Cortina di ferro, le regole sul commercio internazionale poi completate nella creazione della Wto. È stata politica - forse un po’ frettolosa - la scelta di far entrare nel 2001 la Cina in questa Organizzazione mondiale del Commercio. Per non parlare dell’allargamento dell’Unione europea.
Due gli obiettivi. Il primo era quello di creare interdipendenza tra i Paesi. Come garanzia di pace, sia pure non perfetta: nel 1914 i legami commerciali tra Gran Bretagna e Germania erano fortissimi e il Regno Unito subì con lo scoppio della guerra una crisi che poi si fuse con quella nata in America nel ’29. Anzi, l’interdipendenza non è priva di frizioni, ne è madre, come mostrano la situazione attuale dell’Unione Europea o i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Però aiuta.
Il secondo obiettivo, per i Paesi più forti, è stato quello di aumentare la propria sfera di influenza: di soft power, se si preferisce. Gli Stati Uniti, che con la nascita della Wto hanno intelligentemente abbandonato - lo si dimentica spesso - una lunga tradizione di protezionismo non sempre moderato, sono stati evidentemente i protagonisti.
Cosa sta facendo ora Trump? C’è un aspetto tecnico nelle sue scelte: alcuni tipi di contromisure sono permessi dalle regole internazionali; la stessa Unione Europea, dopo una sentenza della Wto, eresse nel 2002 dazi per quattro miliardi di dollari, scelti in modo da colpire, con precisione chirurgica, zone e aziende sostenitrici dell’allora presidente George Bush per costringere gli Stati Uniti ad abolire sgravi fiscali agli esportatori.
C’è però anche un aspetto politico delle scelte di Trump. Poco, di quanto farà , servirà davvero a far nascere nuovi posti di lavoro, come lui desidererebbe: si tratta di manovre fiscali che “tolgono” ad alcuni settori - in questo caso i più avanzati - per “dare”
DIETRO LE STRATEGIE Alimentando l’idea dell’America muscolare, Trump rinuncia all’arma del soft power
a quelli più arretrati. Se l’ingresso della Cina (e di alcuni altri Paesi) nella Wto ha moltiplicato bruscamente per quattro l’offerta di lavoro - con risultati evidenti e prevedibili... - non si può ripercorrere la stessa strada a ritroso.
L’obiettivo, a parte il consenso interno, non è allora chiaro. Al fianco dell’immagine degli Stati Uniti campioni di libertà e di opportunità per tutti (una parte importante del loro soft power) c’è sempre stata quella dell’America (l’Amerika...) muscolare pronta alle ritorsioni e alle minacce. Trump alimenta sempre più questo aspetto un po’ rogue. Neanche i neocons di Bush, che pure avevano teorizzato qualcosa di simile, si erano spinti così avanti. Si potrebbe forse pensare a un duro gioco negoziale, tipico di un imprenditore old-style, applicato allo scenario internazionale. Peccato però che il soft power degli Usa sia anche una preziosissima arma negoziale, a cui Trump sta rinunciando.