Quei giochi temerari tra Roma e Bruxelles
In una parte del governo e del partito di maggioranza si fa largo la tentazione di sfidare i partner europei e resistere alla richiesta di maggior ordine nei conti pubblici.
Il confronto tra “politici” e “tecnici” al governo riguarda l’intento dei primi di rendere più ampie e permanenti le clausole di flessibilità, cioè di maggior spesa pubblica, tanto indigeste ai partner. Dietro questa sfida c’è la convinzione che l’economia italiana e ancor più il debito pubblico pesino troppo nell’area euro perché i partner e le istituzioni europee possano permettere un default. Anche se un po' di indisciplina in più facesse risalire i tassi italiani, la Bce sarebbe costretta a intervenire per evitare un'instabilità così grave da colpire tutta l'area euro. È quello che gli americani chiamano un “gioco di galline”, una sfida a chi frena per ultimo sull'orlo del burrone.
Per evitare che il gioco finisca male, che cioè si cada nel burrone, oppure che l'euro e la Bce perdano credibilità, o che gli altri Paesi decidano che con un partner che fa i comodi propri non possono più convivere, sono in corso trattative complicate. Governi nazionali e istituzioni europee si muovono in una zona di compromesso: si riafferma il valore delle regole, ma poi si fa quello che si può, cercando di minimizzare i costi politici. Da un lato i governi non vogliono essere sanzionati e dall'altro la Commissione Ue deve salvare faccia e regole. In fondo, chi può essere contrario a un po' di pragmatismo?
Purtroppo, tuttavia, la vicenda italiana sta superando i limiti del pragmatismo: il debito non ha mai smesso di aumentare e l’alternativa tra correzione della politica di bilancio e intervento europeo sembra inevitabile.
Un Paese incorre in una procedura per disavanzo eccessivo se infrange il criterio del deficit, cioè supera la soglia del 3% del Pil, oppure il criterio del debito, che per i Paesi ad alto debito prevede una riduzione pari al 5% della distanza dalla soglia del 60%. La differenza principale tra i due casi è che, in base al Patto di stabilità, lo sfondamento del 3% comporta un’apertura (quasi) automatica della procedura, mentre il mancato rispetto del criterio del debito lascia alla Commissione un margine di discrezionalità nel raccomandare o no l'apertura della procedura.
Nel caso dell'Italia, la Commissione ha fatto ampio uso dei margini di discrezionalità. In particolare, ha sostenuto l'interpretazione, ripetutamene contestata dai Paesi rigoristi, Germania in testa, che finché un Paese non si discosta troppo dal sentiero di aggiustamento verso l'obiettivo di bilancio di medio termine, e cioè il pareggio di bilancio strutturale, il mancato rispetto del criterio di riduzione del debito non debba dar luogo all'apertura della procedura. L'argomento sottostante è che il raggiungimento del pareggio strutturale comporta un'automatica riduzione del debito, almeno all'infuori di casi di crescita anormalmente bassa.
Vista da Bruxelles, questa interpretazione appare sempre meno difendibile nel caso dell'Italia che - dopo aver fatto uso di tutte le clausole di flessibilità possibili per ritardare l'aggiustamento nel 2015 e nel 2016 - non sembra intenzionata a riprendere la strada del consolidamento di bilancio nel 2017 e ancor meno nel 2018, quando, esauritisi gli effetti della flessibilità, dovrà attuare un aggiustamento struttu- rale di mezzo punto di Pil. D'altronde, tagli del deficit di pochi decimali come quelli proposti da Roma non sembrano una politica prudente di fronte al rischio di future recessioni. Basta guardare alla crescita dell'Italia negli ultimi 15 anni per rendersi conto di quanto sia incauto affidarsi principalmente alla crescita dell'economia per risolvere il problema del debito.
È a questo punto che entra la politica. Il livello della crescita aumenta con le riforme e queste dipendono dall'agibilità dei governi. In una condizione di fragilità politica, un po' di tolleranza può essere accordata ai governi che, anche se faticano a ridurre il disavanzo, riconoscono le logiche europee e si impegnano nelle riforme concordate. Da qui la trattativa tra Roma e Bruxelles. Ma se un governo teorizza la violazione duratura delle regole, per rendere credibile l'impegno alle riforme è necessaria una procedura, un contratto, o addirittura un programma, che vincoli negli anni le riforme necessarie ad aumentare la crescita. Tali “programmi” hanno un prezzo politico elevato, così il governo propone di chiamarli “partenariati”, ma è difficile che la sostanza cambi.
Per ora ci sono due soluzioni di compromesso sul tavolo. Una è rivolta a risanare il sistema bancario e l'altra invece a tenere sotto controllo il debito pubblico. Questa seconda è indicativa del corto circuito che si può manifestare se priorità politiche e tecniche non coincidono. Anziché avviare una procedura per disavanzo eccessivo secondo le regole del Patto di stabilità, la Commissione potrebbe inviare una raccomandazione affinché l'Italia sia sottoposta a una procedura per squilibrio macroeconomico motivata dalla mancata riduzione del debito pubblico. La Commissione infatti emette delle comunicazioni con le quali accompagna i rapporti su ogni Paese e da queste comunicazioni possono emergere squilibri eccessivi che impongano azioni correttive. In tal modo il Paese può incorrere in una procedura correttiva per squilibrio eccessivo. Il risultato non è diverso dalla procedura normale: il Paese deve impegnarsi a un programma di riforme, coerente con gli obiettivi. Quello che cambia sono però gli effetti politici, in particolare se anche altri Paesi – la Germania – fossero trovati in squilibrio, il costo politico sopportato dal governo sarebbe meno pesante di quello delle procedure tradizionali. Inoltre, sanzionare un Paese per lo squilibrio del debito è politicamente meno indigesto che non per l'eccesso di deficit. La responsabilità del debito va infatti indietro nelle legislature, mentre il disa- vanzo ha un nome e un cognome, colpisce cioè il governo in carica. E questa è una cosa che non piace fare alla Commissione e piace ancor meno al governo sanzionato.
Ma quello che è politicamente digeribile può essere molto indigesto dal punto di vista finanziario. Per gli investitori, una procedura per deficit eccessivo è abbastanza innocua. Possono trascurare il fatto che nel 2016 il deficit non fosse in linea. Diversa è la reazione degli investitori in titoli italiani se per la prima volta il debito del Paese – non il deficit - finisse nel mirino delle istituzioni europee. Molti investitori considerano il debito italiano la maggiore minaccia per l'euro e il fatto che le istituzioni lancino l'allarme non li tranquillizzerà.
Violare le regole e poi cercare una soluzione “politica” è un gioco pericoloso. Più che a un gioco di galline, assomiglia a due galline che agitano una bandiera rossa davanti a un toro.