Hegel, passione indiana
L’uscita recentissima per Oxford University Press di un volume che, per la prima volta, raccoglie tutti gli scritti di Hegel sull’India rappresenta senza dubbio un evento culturale e filosofico di non poco conto. I due curatori, Aakash Singh Ratore (Nerhu University, Delhi) e Rimini Mohapatra (editor di Taylor & Francis) lo sanno bene, e anche per questo spingono l’acceleratore sulle polemiche. Perché una cosa è certa: lo Hegel che si occupa di India costituisce a leggerlo bene una duplice sorpresa.
Da una lato, infatti, mostra un’acribia e un interesse straordinari per la cultura filosofica indiana, francamente non riscontrabili neppure oggi nella maggior parte dei filosofi occidentali. Dall’altro, mette in luce –ma come potrebbe essere altrimenti?- un robusto insieme di pregiudizi per altro abbastanza evidenti. Sul primo aspetto, c’è da dire che si resta stupiti innanzitutto dal punto di vista quantitativo: Hegel ha scritto circa 80mila parole sarebbe a dire quasi 200 pagine sull’India.
Queste pagine includono un assai lunga e articolata recensione di un saggio di Humboldt su un episodio del BhagavadGita, considerato il testo classico della religione induista, passi, questi più noti, della Filosofia della Storia, della “Storia della Filosofia” e della Enciclopedia, ma anche sorprendenti e approfondite discussioni sulla filosofia della religione, sull’estetica e sulla psicologia teoretica.
Inoltre, guardando alle date ci si accorge che l’interesse per l’India è stato costante nella carriera di Hegel. Dietro questo interesse perdurante c’è sicuramente l’avversione non nascosta per il Romantici che esaltavano esotismo e primitivismo, e anche una certa ostilità ai kantiani come Humboldt. Ma le motivazioni polemiche non bastano a giustificare tanto lavoro. Perché quello che sorprende oltre alla serietà dell’impegno è la rilevanza dei risultati (che però sorprende meno se si considera la grandezza filosofica di Hegel), anche tenendo conto che egli non poteva accedere direttamente ai testi.
Hegel è infatti il primo a dire con chiarezza che in India filosofia e religione camminano assieme creando imbarazzo nel pensatore occidentale, è poi capace di cogliere l’essenza del rapporto tra induismo e buddismo e in genere in grado di distinguere tra varie forme di induismo (la sua analisi di Yoga, Sankya e Naya sono acute), e non la manda certo a dire sulla importanza delle caste nella cultura indiana. Dato a Hegel quello che è di Hegel, i pregiudizi e talvolta anche una strana superficialità nei giudizi non mancano. La tesi di fondo è che la storia si muove in direzione della libertà, e che gli indiani sono incapaci di concepire la libertà stessa.
Sotto questa assunzione non certo amichevole l’analisi del Gita appare talvolta davvero pretestuosa, come nel caso del dibattito tra Krishna e Arjuna (l’eroe del poema indiano). Anche la tesi dell’impossibilita da parte della filosofia indiana di comprendere la determinazione dei concetti e l’individualità stessa, nonché l’accusa di vuotezza nei confronti della filosofa della mente indiana, appaiono ingiuste e non motivate. Resta l’importanza di un lavoro continuo e meditato sull’India da parte di un grande del pensiero occidentale. È anche significativo che la filosofia di Hegel –come ha sostenuto tra gli altri Aurobindo- ha strane somiglianze e profonde con il pensiero indiano. Il libro è pubblicato in India da curatori indiani. E anche questo è un fatto non privo di interesse. Aakash Singh Ratore, Rimina Mohapatra, Hegel’s India: A reinterpretation with texts, Oxford University Press, Delhi, pagg .310, 950 rupie