Angelo Ventura e quegli intellettuali da «instant-book»
L’acutezza delle idee di Salvemini, Trentin, Anti e altre figure del Novecento raccolte nei saggi di Angelo Ventura: un vademecum per il mondo attuale
Carmine Donzelli è rimasto uno degli ultimi editori italiani. O almeno uno degli ultimi editori su scala nazionale, poiché la provincia abbonda – fortunatamente – di cosiddetti piccoli editori. Editore, Donzelli è rimasto nel senso etimologico della parola. Dal latino eděre: «Metter fuori, pubblicare», ma anche «partorire, generare», e ancora «innalzare, elevare». È rimasto quasi solo Donzelli a credere nella responsabilità dell’editore sul fronte dell’impresa e del marketing, ma anche sui fronti della cultura, della politica, della cultura politica, e perfino (udite udite) della politica culturale. Come attesta un libro fresco di stampa per i suoi tipi, una postuma raccolta di saggi dello storico padovano Angelo Ventura, intitolata: Intellettuali.
Intellettuale! Chi era costui? La parola risuona oggi nel mondo come un lemma desueto o addirittura sgarbato. In Italia, poi, meglio non parlarne. Soprattutto ai due maggiori leader politici del Belpaese. Per l’uno, la figura dell’intellettuale notoriamente si riduce ( o almeno si riduceva, fino a poche settimane fa) a quella del « professorone » , più o meno « gufo » o « rosicone». Per l’altro, «l’intellettuale è una specie scomparsa, sotterrata dalle tonnellate di merda della televisione e dall’indifferenza, dal grufolare di maiali, della società italiana » .
Stando così le cose, che fa Donzelli? Pubblica la raccolta di saggi di un professore universitario scomparso nel 2016 a ottantasei anni, e la intitola con quella parolaccia lì: intellettuali. E ci aggiunge un sottotitolo alla Norberto Bobbio, roba da addormentarsi in piedi se appena appena si sa stare al mondo, se si guarda al mondo da Pontassieve o da Sant’Ilario: Cultura e politica tra fascismo e antifascismo. Per giunta, Donzelli è recidivo. Perché di Angelo Ventura ha pubblicato, negli anni scorsi, altre due raccolte di saggi: l’una contenente i suoi scritti sul fascismo e gli ebrei, l’altra i suoi scritti sul terrorismo italiano. Raccolte di saggi? Tutta roba che non si vende, direbbe qualunque editore diverso da Carmine Donzelli.
Può ben darsi, per carità. E può darsi che questa raccolta di saggi su alcuni intellettuali italiani del Novecento sia buona soltanto a essere sotterrata dalle tonnellate di merda dell’indifferenza. Ma se proprio qualcuno dovesse cercarci, osti-
| In questa foto del Congresso socialista del 1908 sono riconoscibili Filippo Turati (con la barba e l’espressione un po’ torva, in seconda fila a sinistra), e Anna Kuliscioff al suo fianco, regale con il cappello nero
natamente, qualcosa di utile qui e oggi, chissà che la ricerca non risulti – a conti fatti – agevole e fruttuosa. Chissà che i personaggi di Ventura non possano rivelarsi sorprendentemente parlanti. E che non possano testimoniare di un’acutezza di sguardo che pur càpita agli intellettuali di avere. Magari a tempo perso, in una pausa tecnica fra il rosicare e il grufolare.
Si prenda Gaetano Salvemini, e la sua riflessione di un secolo fa intorno alla crisi della forma- partito. In una lettera del 1911 a Filippo Turati, Salvemini sostiene che il Partito socialista non esiste in quanto vero partito politico, perché si riduce a un aggregato incoerente di gruppi d’interesse tenuti insieme da preoccupazioni elettoralistiche, oltreché da una degenerazione corporativa e ministerialista. Entro un simile contesto, sostiene Salvemini, conviene a tutti nel Partito fare mostra di accapigliarsi sull’una o sull’altra questione astratta e generale. « Qualunque bestione, con quattro formulette», può imbastire un discorso riformista o rivoluzionario, mentre discutere di questioni concrete richiede « studio e conoscenze estese » . Con un secolo d’anticipo sulla dissoluzione della forma- partito, Salvemini smaschera l’inganno uno e bino di una democrazia degli oligarchi e degli incompetenti.
Si prenda Silvio Trentin, e la sua riflessione dei tardi anni Venti intorno al nesso storico fra anti-Europa e antidemocrazia. Per Trentin, il senso profondo della crisi della civiltà europea – crisi di cui il fascismo italiano non è allora che
un’espressione – va riconosciuto nel tentativo dell’economico di imporre la propria supremazia sul politico. Il fascismo e l’antieuropeismo fanno tutt’uno, perché vogliono ridurre l’uomo alla categoria dell’homo oeconomicus, gettando alle ortiche quanto la storia d’Europa contiene di più originale e di più prezioso: la storia della democrazia, come successione di sforzi lenti e faticosi verso la realizzazione di un ideale di libertà.
Si prenda Carlo Anti, archeologo insigne, e magnifico rettore dell’università di Padova dal 1932 al 1943. Il ritratto che Ventura gli dedica è un capolavoro di sensibilità storiografica, e basta quasi da solo a formulare in termini metodologicamente maturi l’annosa questione del consenso e del dissenso degli intellettuali sotto il regime fascista. Nel caso di Anti, l’acutezza di sguardo è quella di un rettore felicemente visionario nell’impegno di rilanciare l’ateneo patavino. Il suo rigetto di ogni concezione dell’università quale cittadella isolata, e il suo progetto di far crescere l’ateneo nella città e con la città, attraverso realizzazioni architettoniche oltreché edilizie, le più moderne attrezzature scientifiche, sinergie con altri enti di ricerca operanti sul territorio, e una Casa dello studente che Gaetano Salvemini riconoscerà degna di Harvard, dovrebbero valere da modello storico per numerosi rettori d’oggidì. Eppure, era quello lo stesso Anti indefettibile per ortodossia fascista, e perfettamente disponibile, nel 1938, a liberare la sua università da tutti i docen-