Arrivano gli strateghi di «America First»
Nel Consiglio di Sicurezza Nazionale prende il potere l’asse composto dal generale McMaster, il banchiere Cohn e Kushner La missione è ridare forza e credibilità alla Casa Bianca dopo l’estromissione di Bannon
p L’intervento in Siria e il monito alla Corea del Nord hanno sollevato il sipario sulla nuova missione dell’amministrazione di Donald Trump: restituire credibilità alla politica estera di una giovane Casa Bianca parsa finora pericolosamente allo sbando, ostaggio di guerre per bande. E il cuore di questa missione è tutto nel destino di un organismo - il Consiglio di Sicurezza Nazionale - lontano dai riflettori ma dal Secondo dopoguerra cruciale per l’elaborazione di strategie da presentare al presidente al cospetto di crisi e sfide globali. Generali di lungo corso, protagonisti dell’intelligence e leader esperti - da HR McMaster a James Mattis, veterani delle forze armate, al segretario di Stato Rex Tillerson, ex chief executive di Exxon Mobil - sono oggi diventati i collaboratori più ascoltati da un presidente che alla sua improbabile elezione aveva fatto terremoti istituzionali, incarnati dall’ascesa dell’onnipresente consigliere populista e isolazionista della destra radicale Steve Bannon.
La caduta in disgrazia di Bannon segna il riscatto delle istituzioni, dei centristi sugli estremisti: è stato rimosso dal National Security Council dopo che il suo ingresso nel riservato “club” aveva destato scalpore e preoccupazione. In un’ulteriore passo, potrebbe essere in totale uscita anche come stratega di Trump, assieme all’inefficace capo di staff Reince Priebus. Sostituiti nel ruolo di confidente - ma non più nel Consiglio - da Jared Kushner, il genero con un portafoglio estero che comprende Cina, Medio Oriente e Messico. E per la poltrona di esecutore di politiche interne e fiscali dell’ex banchiere di Goldman Sachs, ora consigliere economico, Gary Cohn. Entrambi, Kushner e Cohn, sono considerati politicamente moderati e pragmatici. E un asse McMaster-Kushner- Cohn appare oggi in fase di consolidamento, inedito centro di potere nell’amministrazione e chiave d’una sua futura stabilità.
Il cambio di marcia non è privo di rischi e incognite: avviene in corsa, con faide interne irrisolte, numerose correnti estreme e Trump che deve tuttora dimostrare la sua leadership sul palcoscenico internazionale. Il drammatico sforzo di ricalibrare i ruoli nel National Security Council è però indubbio.
L’arrivo alla guida di fatto di HR McMaster è stato il primo e principale segnale: il 54enne generale è tuttora in servizio, prestato al ruolo di consigliere di Sicurezza nazionale. È un veterano dei confitti in Iraq e Afghanistan, stratega geniale e fine intellettuale, autore di un influente libro, Dereliction of Duty, dove ha criticato la gestione della guerra del Vietnam. Ha sostituito Mike Flynn, uomo delle prima ora di Trump considerato pessimo leader e cacciato per sospette relazioni con la Russia. È stato McMaster, soprattutto, a imporre l’uscita di Bannon. E, ottenuta l’autorità di orchestrare l’agenda dell’organismo e del parallelo Consiglio di Sicurezza interna, cerca ora di ripulirli da staff troppo compromessi, che l’hanno “macchiato” alimentando il sospetto infondato che Trump fosse stato illegalmente spiato dal predecessore Barack Obama.
Il ministro della Difesa Mattis, 66 anni, ha fama di aggressività, anzitutto sull’Iran, ha messo a punto la rapida rappresaglia contro Damasco, ma è a sua volta un accorto veterano di Iraq e Afghanistan ed ex capo del Comando Centrale impegnato sul Medio Oriente dove prese le redini da David Petraeus.
L’uscita di Bannon è stata accompagnata dal rientro nell’organismo del direttore nazionale dell’Intelligence, Dan Coats, e del capo degli Stati Maggiori Riuniti delle Forze armate Joseph Dunford. Coats è un politico con passato diplomatico, ex senatore repubblicano e ambasciatore in Germania. E il generale Dunford, 61 anni, aveva già ricevuto la fiducia di Obama per l’attuale incarico. Nel Consiglio sono per statuto anche il vicepresidente Mike Pence, il segretario all’Energia Rick Perry e quello di Stato Tillerson, 65 anni, il cui profilo di duro mediatore è improvvisamente salito e che la prossima settimana è atteso a Mosca per fare i conti con la “rottura” sulla Siria.
Trump, se ha scosso i nervi di molti con le sue prese di posizione anche nei confronti di alleati e della Nato, è oggi forse aiutato nel ricucire i rapporti con l’establishment militare e di intelligence da alcune promesse elettorali che sembra intenzionato a mantenere. Nella proposta di budget ha offerto gli unici veri aumenti al Pentagono, 54 miliardi che gonfiano una spesa già di 600 miliardi l’anno. E l’idea di risposte misurate ma determinate alle minacce, se da verificare, ha anche sostenuto l’intero settore della difesa. Colossi quali Raytheon, produttrice dei missili Tomahawk usati contro Assad, e Lockheed Martin hanno guadagnato a Wall Street. Lo spettro di eccessive influenze, dirette o indirette, del “complesso militar-industriale”, contro cui aveva messo in guardia il generale-presidente Dwight Eisenhower, restano. Ma oggi Trump è convinto di avere un compito ben più urgente: restituire fiducia al Consiglio per la Sicurezza nazionale e statura alla sua politica estera e di gestione delle crisi. Tecnologia e modelli prodotti, fatturato, reazione dei mercati azionari dopo l’attacco Usa dalle principali società statunitensi del settore
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