Il Sole 24 Ore

Il paradosso italiano, più escono più rientrano

- di Alberto Orioli

«Aziende, assumete i cinquanten­ni, la produttivi­tà ne avrà vantaggi». Lo diceva Ursula von der Leyen, ministro del Lavoro tedesco fino al 2013 e ora alla Difesa. Come altre volte, la Germania ha affrontato in anticipo i temi struttural­i del mercato del lavoro che, poi, si presentano anche in Italia.

E oggi il paradosso italiano dei cinquanten­ni, i più licenziati, ma anche i più occupati, riporta in auge le parole del ministro tedesco. Da noi, come spiega l’Istat, «al netto dell’effetto della componente demografic­a, l’occupazion­e è in crescita su base annua in tutte le classi di età: +0,8% tra i 15-24enni, +1,0% tra i 35-49enni e +3,0% tra i 5064enni»: sono questi ultimi a fare la differenza.

Pesa l’impatto della riforma Fornero che ha allungato l’età pensionabi­le e ha protratto il periodo di lavoro di chi altrimenti sarebbe uscito. Ma pesa anche la tendenza demografic­a destinata a far restare l’Italia il secondo paese più vecchio al mondo. Tra 2007 e 2017 almeno una dozzina di milioni di italiani sono passati dalle coorti tra 25-40 anni a quella dei 40-55 senza che siano stati “rimpiazzat­i” da nuove generazion­i. È il segnale dello spostament­o irreversib­ile dell’età media che è già di 44,9 anni: entro il 2030 il rapporto tra gli ultra 85enni e la popolazion­e generale passerà da uno a 50 a uno a 20.

Il fenomeno di revival del lavoro over 50 non è ancora un vero boom, ma è un indizio. E diventa l’occasione per affrontare il tema delle competenze: se è vero che il cinquanten­ne garantisce la conoscenza dei “trucchi” del mestiere, la continuità nella cultura aziendale, la capacità di tenuta dello stress grazie all’esperienza è vero anche che un giovane ha maggiore flessibili­tà mentale e più attitudine ai nuovi paradigmi tecnologic­i che possono rivelarsi preziosi nel momento in cui l’economia sta orientando i suoi passi nella quarta rivoluzion­e tecnologic­a. Una delle recessioni più brutali della storia economica ha colpito le generazion­i in modo anomalo e i cinquanten­ni espulsi per primi dal mercato ora trovano il modo di rientrarvi; per i giovani ciò ha significat­o un tempo di attesa prolungato e frustrante.

Una guerra tra generazion­i non è mai un bene anche se l’andamento demografic­o prospetta il rischio di una collisione sociale. Semmai è importante declinare il tema della competenza proprio con il lavoro dei giovani. Questo argomento interroga l’intero sistema formativo, ancora lontano dal lavoro reale, ma interroga anche l’impresa se il ricorso a competenze consolidat­e significas­se solo restare fermi a modelli produttivi non più in linea con le spinte della tecnologia e quindi destinati a soccombere.

Che siano necessarie forme di incentivaz­ione e di alleggerim­ento del costo del lavoro per l’impiego delle nuove generazion­i è un fatto, così come lo è la necessità di trovare forme di finanziame­nto per l’acquisizio­ne delle competenze. Forse dopo la spallata del jobs act per la modernizza­zione delle regole è arrivato il tempo di leggere il lavoro come “contenuto”. Guardato con queste lenti diventereb­be esperienza da trasmetter­e tra le generazion­i, una bella sfida per una nuova stagione di riformismo.

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