Da Torino a Trieste collegare i saperi per battere la crisi
Ho seguito la tre giorni del Festival dei territori industriali a Vicenzacittà impresa. Ne sono tornato interrogandomi sui miei pregiudizi, da territorialista peripatetico per microcosmi, rispetto al proliferare di festival da marketing territoriale. Con tanto di storytelling che ormai, dai piccoli comuni all’Italia delle 100 città sino alle aree metropolitane, che si disputano e duplicano il salone del libro, fa volare il territorio nella lotta di classe per apparire (Bauman) che in questo caso è “competere per apparire”.
Mi dicevo, volando basso tra capannoni e fenomenologie, roba più da eventologi che da microcosmi. Mi sono ricreduto seguendo i lavori che avevano come tema le parole pesanti “industrie, lavoro, banche e territorio”. Altro che eventologia, ma temi da agenda prioritaria per le rappresentanze e la politica. Sono scomparse dagli spazi collettivi di dibattito dove assumere un punto di vista, siamo in carenza di luoghi di discussione pubblica sulla crisi e la sua metamorfosi. E mi sono chiesto se questa parola leggera, festival, se ben temperata e organizzata come a Vicenza, non sia altro che un agire dentro la crisi di rappresentanza dei corpi sociali, della politica, una rappresentazione con altri mezzi della crisi di rappresentanza della società.
Siamo nell’epoca della disintermediazione, parola chiave che riduce il prender parola della società, ipercomunicante nell’epoca dei social proliferanti, ma priva di spazi pubblici adeguati ai tempi. Tempi di metamorfosi come quella che ha aperto il festival ragionando sull’asse territoriale TorinoMilano-Vicenza-Nord est. Scavando su ciò che resta della company town della Fiat, nella Milano città porta sulla globalizzazione per i flussi delle imprese e dei grandi eventi, e nel Nord est laboratorio del primo postfordismo dell’impresa diffusa e del capitalismo molecolare. Con l’esercizio dello scomporre e ricomporre interrogandosi sul futuro della piattaforma territoriale che va da Torino a Trieste, dove ci sono un 20% di imprese che, spesso passando per Milano, vanno nel mondo, un 60% che resiste a metà del guado in attesa del mercato interno cui erano abituate e sperando di agganciarsi a filiere di medie imprese trainanti, e un 20% che non ce l’ha fatta. Certo ci sono imprese come a Tolmezzo, dove si fanno i fari per il design sofisticato dell’automotive di Giugiaro (Micelli), si può sperare di fare, come aveva stimolato il presidente Rocca di Assolombarda, come la supermetropoli Milano, ma si è concluso che non si può prescindere dalla storia di impresa (Berta) che è sempre stata in dialettica con il fare società.
Da qui l’esigenza di ragionare di un capitalismo intermedio che, partendo dalle eccellenze, quelle ingaggiate con Industria 4.0, con una rivoluzione dello sguardo si orienti anche verso quel 60% che aspetta Godot e occupandosi anche del 20% scomparso e sommerso, se vogliamo evitare i forconi e il rancore sociale. Da qui uno sguardo al rapporto tra impresa e società in questo territorio, necessario oggi per capire come l’adagio di Giacomo Becattini sull’intimità dei nessi, che partendo dalla prossimità, ha formato i distretti, oggi si confronta con l’intimità dei nessi nell’epoca della simultaneità, che impone di collegare l’impresa ai saperi, alle università, alle città, non solo come Milano, ma anche Biella, Bergamo, Vicenza, Padova… nell’epoca della conoscenza globale in rete a base urbana.
Se si rimane in preda solo a un localismo maligno nell’epoca della simultaneità e del capitalismo finanziario ci si trova ad affrontare il fallimento assistito della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Non a caso, il dibattito sulle banche tra de Bortoli e Zingales al teatro Palladiano è stato un affollato momento di catarsi necessaria ragionando delle banche locali, delle banche di sistema, di regole e di bail in. Mi sono detto che ci voleva qualcuno che avesse il coraggio di non nascondere come polvere sotto il tappeto questo trauma delle società locali. Così come i nessi di 4.0 che rimandano alla rete che innerva con i suoi sistemi informativi la robotica e la ragnatela del valore che incorpora tendenze del cliente finale arriva alla logistica e alle connessioni della piattaforma.
LE METAMORFOSI A Vicenza il Festival dei territori industriali occasione di confronto su crisi e necessità di spazi di rappresentanza
Da qui il dibattito pubblico sull’Alta velocità con il ministro Delrio e l’ad di Fs, avendo chiaro che sull’asse Torino-Milano l’alta velocità ha cambiato tempo e spazio così come l’arrivo nella città lineare Torino-Trieste della linea rossa delle frecce rosse può cambiare la connessione dei saperi territoriali in rete. La questione infrastrutturale non è più solo la pedemontana lombarda e la pedemontana veneta come catene di montaggio dell’economia diffusa. Cambiano le forme dei lavori e delle relazioni industriali di cui hanno discusso Landini e De Rita, a proposito di intreccio tra fabbrica e società, cambia il welfare e i soggetti dello sviluppo con Landini che, partendo dalla centralità del lavoro si è trovato in sintonia con il De Rita dei soggetti semplici che fanno impresa. Il primo ragionando di forme di welfare aziendale nel contratto firmato con Federmeccanica, ma avendo anche chiaro entrambi l’attenzione per chi esce dal ciclo e ai giovani e quindi il ridisegnare il ciclo formativo che diventa fondamentale. Coordinato da Paolo Bricco, con Enzo Rullani abbiamo anche commemorato Giacomo Becattini, a cui tutti dobbiamo la cultura dei distretti produttivi. Partendo dagli ultimi interrogativi che ci ha lasciato, a proposito dei territori industriali, sul come “addomesticare” le transnazionali, e sul come fare impresa partendo dalla coscienza dei luoghi. Grazie a Dario Di Vico e Filiberto Zovico, direttore e organizzatore del festival, nelle tre giornate non ho trovato risposte certe ma ho avuto una grande occasione di confronto per continuare a cercare, per continuare a capire andando oltre i miei microcosmi.