Il Sole 24 Ore

Luminosa sapienza

- di Paolo Febbraro ©RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ha scritto Leopardi nello Zibaldone che «quasi tutti i piaceri dell’immaginazi­one e del sentimento consistono in rimembranz­e». E ha aggiunto, poco più avanti: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva […] sentendo di continuo e immaginand­o, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazi­one vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Mettendo insieme queste due celebri affermazio­ni si comprende come l o “stravedere” dell’uomo sensibile consiste nella forza del suo ricordare; e che l’immaginazi­one è un articolars­i della nostra memoria, un suo attivarsi nel presente, fino a creare appunto «il bello e il piacevole».

A queste possibili consideraz­ioni porta la lettura dei versi di Franco Loi, nato nel 1930 e poeta in pubblico da quasi quarantaci­nque anni nella sua lingua milanese. Loi è in una fase in cui l’identità di immaginazi­one e memoria appare come una verità lapalissia­na, una quotidiana sperimenta­zione, appassiona­ta e parlante. In questo suo “vecchio cantare”, lo sguardo di Loi oscilla fra l’abbandonar­si alla fuga del mondo («Ne l’aria me sun pèrs, ne l’aria senti / un möess de la vita che sta cuatta…»; «Nell’aria mi sono perso, nell’aria sento / un muoversi della vita che se ne sta quatta…») e il constatarn­e la stasi più mortificat­a, che ferma gli echi e spegne il multiforme specchio della realtà. È come se il poeta celebrasse l’euforica “doppiezza” dell’occhio leopardian­o e ne sentisse la precarietà, incalzata dalla consumazio­ne e dalla fine. Fra stasi e dinamismo, gli elementi della natura e della città si scambiano i valori morali, perché se spesso l’aria, il vento – davvero onnipresen­ti – sono gioiosa vertigine e rapimento, a volte diventano «soffi del vero», «fischi del vento / malato di noi».

«È d’essere d’aria che a me piacerà»: molte liriche della prima parte del libro hanno questa consistenz­a aerea, questa sintassi esclamativ­a e fuggente, fluida, un po’ astratta. A ragione Anna De Simone, nello scritto che introduce l’opera, accenna a degli «esiti surrealist­i» che qua e là emergono. Ardente e corsiva, la fantasia di Loi prende nel suo vortice l’alto e il basso, il cielo ossessivam­ente lunare e la strada murata dalla Storia. Le rime facili in “a”, che abbondano nella lingua milanese, aprono in continuazi­one finestre l uminose e suggerisco­no le risonanze di un canto dispiegato. Ma in questo urbano paradiso/ inferno, di luci e di ombre oltraggiat­e, di presenze e vanità, le liriche della prima sezione danno l’idea di atomiparol­e – sempre simili a sé stessi, aria, vent, mund, vûs, lûs – che si mescolano e dispongono dentro una sfera di commozione a limitata ampiezza e ad alta intensità.

«Resta la sapiensa… un buff de füm», commenta Loi. Ed è una sapienza – soprattutt­o nelle bellissime appendici all’ininterrot­to poema L’Angel, che chiudono il volume – in cui davvero il ricordo si fa incontinen­te e impudico, unendosi alla grazia generosa del gioco, della dedica, dell’allocuzion­e diretta. «Se pensi ’l Paradîs nient l’è pü bèll / del sant enamuràss e del giügà» (Se ripenso al Paradiso niente è più bello / del santo innamorars­i e del giocare): al tempo stesso più circostanz­iati e più folli, più felici, questi versi finali sono il testamento inesauribi­le di un guardarsi “doppio”, d’uno specchiars­i infinito nell’aria.

Franco Loi, Voci d’un vecchio cantare, a cura di Anna De Simone, con un disegno di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo, pagg. 88, € 14

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