Luminosa sapienza
Ha scritto Leopardi nello Zibaldone che «quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranze». E ha aggiunto, poco più avanti: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva […] sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Mettendo insieme queste due celebri affermazioni si comprende come l o “stravedere” dell’uomo sensibile consiste nella forza del suo ricordare; e che l’immaginazione è un articolarsi della nostra memoria, un suo attivarsi nel presente, fino a creare appunto «il bello e il piacevole».
A queste possibili considerazioni porta la lettura dei versi di Franco Loi, nato nel 1930 e poeta in pubblico da quasi quarantacinque anni nella sua lingua milanese. Loi è in una fase in cui l’identità di immaginazione e memoria appare come una verità lapalissiana, una quotidiana sperimentazione, appassionata e parlante. In questo suo “vecchio cantare”, lo sguardo di Loi oscilla fra l’abbandonarsi alla fuga del mondo («Ne l’aria me sun pèrs, ne l’aria senti / un möess de la vita che sta cuatta…»; «Nell’aria mi sono perso, nell’aria sento / un muoversi della vita che se ne sta quatta…») e il constatarne la stasi più mortificata, che ferma gli echi e spegne il multiforme specchio della realtà. È come se il poeta celebrasse l’euforica “doppiezza” dell’occhio leopardiano e ne sentisse la precarietà, incalzata dalla consumazione e dalla fine. Fra stasi e dinamismo, gli elementi della natura e della città si scambiano i valori morali, perché se spesso l’aria, il vento – davvero onnipresenti – sono gioiosa vertigine e rapimento, a volte diventano «soffi del vero», «fischi del vento / malato di noi».
«È d’essere d’aria che a me piacerà»: molte liriche della prima parte del libro hanno questa consistenza aerea, questa sintassi esclamativa e fuggente, fluida, un po’ astratta. A ragione Anna De Simone, nello scritto che introduce l’opera, accenna a degli «esiti surrealisti» che qua e là emergono. Ardente e corsiva, la fantasia di Loi prende nel suo vortice l’alto e il basso, il cielo ossessivamente lunare e la strada murata dalla Storia. Le rime facili in “a”, che abbondano nella lingua milanese, aprono in continuazione finestre l uminose e suggeriscono le risonanze di un canto dispiegato. Ma in questo urbano paradiso/ inferno, di luci e di ombre oltraggiate, di presenze e vanità, le liriche della prima sezione danno l’idea di atomiparole – sempre simili a sé stessi, aria, vent, mund, vûs, lûs – che si mescolano e dispongono dentro una sfera di commozione a limitata ampiezza e ad alta intensità.
«Resta la sapiensa… un buff de füm», commenta Loi. Ed è una sapienza – soprattutto nelle bellissime appendici all’ininterrotto poema L’Angel, che chiudono il volume – in cui davvero il ricordo si fa incontinente e impudico, unendosi alla grazia generosa del gioco, della dedica, dell’allocuzione diretta. «Se pensi ’l Paradîs nient l’è pü bèll / del sant enamuràss e del giügà» (Se ripenso al Paradiso niente è più bello / del santo innamorarsi e del giocare): al tempo stesso più circostanziati e più folli, più felici, questi versi finali sono il testamento inesauribile di un guardarsi “doppio”, d’uno specchiarsi infinito nell’aria.
Franco Loi, Voci d’un vecchio cantare, a cura di Anna De Simone, con un disegno di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo, pagg. 88, € 14