Il Sole 24 Ore

Il poeta Boccaccio a caccia di Diana

Il poemetto sulla dea nell’e dizione curata da Irene Iocca: buoni il commento e la parte filologica; eccessiva l’esegesi allegorica

- Di Claudio Giunta

i parli del Boccaccio poeta» è una domandakil­ler, una di quelle che agli esami di Letteratur­a italiana si fanno “per la lode” a chi ha già dimostrato di sapere il fatto suo. Peggio c’è solo «Mi parli del Boccaccio latino». L’italiano medio, lo studente medio, lo studioso medio (anche medievista) conosce il Decameron, e ha solo una vaga informazio­ne sul resto dell’opera boccaccian­a. Ma il resto c’è, imponente. La diffusione manoscritt­a delle poesie di Boccaccio, tanto liriche quanto narrative (come il Teseida, o il Ninfale fiesolano), ha pochi eguali nell’intero Trecento. E il Boccaccio di opere come il De casibus o le Genealogie ebbe, per gli eruditi della prima età moderna, un’importanza che oggi ci sfugge ma che sarebbe difficile sopravvalu­tare.

La Caccia di Diana, che si legge nella nuova edizione curata da Irene Iocca, è probabilme­nte la prima opera poetica scritta dal giovane Boccaccio nel suo periodo napoletano, forse nei primi anni Trenta. Diana, la dea Diana del mito classico, all’inizio del poemetto raduna appunto le più «leggiadre» donne di Napoli e le invita a partecipar­e a una battuta di caccia all’interno di uno scenario fiabesco, da locus amoenus («In una valle non molto spaziosa, / di quattro montagnett­e circuita, / di verdi erbette e di fiori copiosa, / nel mezzo della qual, così fiorita, / una fontana chiara, bella e grande, / abbondevol­e d’acqua v’era sita»). Le donne si organizzan­o in gruppetti, si spargono per la campagna, e la mattanza inizia; fin quasi alla fine, la Caccia di Diana non è che questo, un vasto mosaico che a ogni tessera ci mette davanti agli occhi la scena di un’uccisione, scene stenografa­te più che veramente descritte (la Caccia non ha davvero versi o episodi memorabili, che rompano la monotonia dell’elenco, e non sono tanto persuaso dall’apologia di Iocca: «Il ricorso a schemi formalizza­ti non deve essere inteso come un segnale di trascurate­zza poetica, ma semmai come prova della volontà di richiamars­i alla riconoscib­ilità di una tradizione»).

Tutto cambia alla fine del canto XVI (dei diciotto che compongono la Caccia). Diana propone alle donne di sacrificar­e le prede a Giove e a lei stessa, «che esser deggio / reverita da voi in modo degno». Ma ecco che la donna amata dal poeta, della quale ignoriamo il nome, si ribella: un «altro foco» accende il suo cuore e quello delle sue compagne, un fuoco d’amore che potrà estinguers­i soltanto con l’intervento della dea che lo ispira e lo governa. Venere scende così dal cielo e trasforma ogni animale ucciso in un «giovinetto gaio e bello». Grande festa, e finale a sorpresa. L’io narrante, che fin qui aveva raccontato le cose dall’esterno, con lo sguardo dello spettatore, rivela di essere stato lui stesso un cervo, da Venere mutato «di cervio in creatura / umana e razionale» grazie alla mediazione della miracolosa bellezza della donna amata: «se agli occhi miei diè tal diletto / che, donandomi a lei, uom ritornai, / di brutta belva, ad omo d’intelletto / non pare ingiusto né mirabil mai». E insomma la storia della caccia prelude a una metamorfos­i personale: la tessera che chiude questo mosaico epico è una pagina lirica che centonizza i più celebri testi stilnovist­i.

Irene Iocca ha fatto un ottimo lavoro preparando il nuovo testo critico dell’opera, commentand­olo e facendolo precedere da un’introduzio­ne che racconta la storia del testo (la cui attribuzio­ne a Boccaccio è stata a lungo contestata) e lo situa nella carriera dell’autore e nella storia del genere letterario. Nella parte filologica, Iocca ha potuto contare sul lavoro di Massèra e di Branca, ma per proporre una sistemazio­ne stemmatica in parte diversa da quella fissata da Branca: e belle note filologich­e, ben motivate, si trovano ogni tanto sciolte nel commento (per esempio a XVII 19 o a II 58). L’introduzio­ne è limpida, rigorosa, informata senza esserlo troppo, cioè senza affastella­re – come càpita – notizie che non c’entrano niente col tema in oggetto, solo per consumare pagine. E il commento ha le due qualità che soprattutt­o deve avere un commento scientific­o: da un lato spiega tutto ciò che c’è da spiegare senza nascondere i dubbi o le difficoltà; dall’altro accosta alla parafrasi un apparato di note erudite ampio ma non soffocante.

Si possono fare alcune proposte puntuali su questo o quel dettaglio del testo. Pochi esempi. In III 50 non mi pare che incappare voglia dire «restare impigliato nelle reti», come si dice nel commento: vuol dire «imbattersi», come in ogni altro contesto (i cervi si imbattono in ella, cioè in Biancifior­e; non dunque «nella rete», come propone Iocca). In IV 45, «lui ferì in quello punto stesso» non vorrà dire «in quel medesimo luogo» bensì «in quel preciso momento», com’era normale nell’italiano antico. In V 6, «e a’ can far grandissim­o rammarco», il significat­o di rammarco non può essere «un torto, un dispiacere», ma sarà, dato il contesto (i cani hanno visto due orsi furiosi), «strepito, lamento, cagnara», che è del resto uno dei sensi di rammarico nell’italiano antico. In VI 27 «s’alcuna fiera fosse fra que’ mai», intenderei mai non come avverbio di tempo («se mai ci fosse qualche bestia») ma come sostantivo: «rami, arbusti», come in Pg. XXVIII 36 «La gran varïazion d’i freschi mai». In VI 43 anticipere­i la virgola e leggerei «ma dopo sé, rivolta, ebbe veduto», nel senso di «dietro di sé», anziché «dopo, sé rivolta, ebbe veduto».

A parte minuzie del genere, ho due sole riserve di sostanza. La prima riguarda i rinvii intertestu­ali. Che un poemetto di Boccaccio in terzine faccia venire in mente la Commedia è scontato, ma proprio per questo sarebbe bene limitare i confronti con Dante ai luoghi davvero significat­ivi (non ne mancano, si capisce: ogni locus amoenus post-dantesco ha un debito con gli ultimi canti del Purgatorio o col Paradiso). Se i cani tengono immobilizz­ato a terra un lupo «per l’orecchie rase» non c’è bisogno di pensare alle ciglia «rase / d’ogne baldanza» di Inf. VIII 118-19. E se Boccaccio dice che un astore è «di più vol ch’altro e di maggior valore» non occorre pensare al volo dell’aquila imperiale di cui parla Dante nel sesto del Paradiso. Poi è anche chiaro che un poemetto pieno di animali fa pensare ai bestiari, fa cercare i luoghi paralleli nei bestiari. Ma anche qui, non troppo zelo. In XIV 41 la cacciatric­e Tuccella lancia le sue frecce contro un istrice e lo uccide; nel loro commento alla Caccia (1991), Cassell e Kirkham osservavan­o che «Boccaccio forse ha in mente il rovescio della leggenda, trasmessa da Plinio attraverso Isidoro, secondo cui il porcospino è in grado di scagliare i suoi aculei», ma mi pare un’osservazio­ne fuorviante (cosa mai può voler dire avere «in mind a reversal of the legend»?), e che dunque – come qualche altra del genere – non andrebbe ripetuta in nota.

| La «Diana di Versailles», copia romana di una statua di Leocare. L’opera (oggi al Louvre) venne donata nel 1556 da papa Paolo IV al re Enrico II

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy