Zibaldone di vecchi emblematici
La vecchiaia è davvero l’età della saggezza e della pace dei sensi, come pretenderebbe un’insigne consuetudine che da Cicerone giunge sino a Piero Ottone, autore nel 2006 di un volume intitolato Memorie di un vecchio felice? Oppure è soltanto l’età del disfacimento fisico, intellettivo e finanche morale? Questa seconda interpretazione affiora, seppur malvolentieri, nel De senectute di Norberto Bobbio (1997) e trova la sua più brillante espressione nell’impietoso album dei ricordi che Massimo Fini ha dedicato nel 2007 alla propria giovinezza perduta ( Ragazzo. Storia di una vecchiaia).
Nel suo ultimo libro, incentrato proprio sull’autunno della vita, il cuore dell’ottantunenne Giampaolo Pansa vorrebbe tanto battere per Cicerone. Però non può neppure ignorare i cattivi pensieri di Fini, nemico dell’«orgia di retorica, di ipocrisie e di rimozioni» con cui edulcoriamo la vecchiaia (ora ribattezzata, eufemisticamente, «terza età»). Cosicché, Pansa finisce con l’abbracciare una posizione «terzista»: il diritto, come «anziano operoso», alla propria dignità, ma anche l’ammissione che varcare la soglia della senescenza significhi lasciarsi il meglio alle spalle. L’inflazionata frase di Paul Nizan («Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita») è soltanto una corbelleria d’autore.
Lo testimonia lo zibaldone di storie qui raccolte. Forse al di là delle sue stesse intenzioni, Pansa firma un affresco desolante di alcuni vecchi emblematici: ossessionati dalla prostata, circuìti dalle badanti, snobbati dai figli, incupiti dall’impoverimento, terrorizzati dalla criminalità, confinati entro squallidi bilocali di periferia, in fondo sono ben pochi gli anziani capaci di ribellarsi «all’incalzare del calendario». Ne esce un’Italia impaurita, incattivita, densa di strali contro gli immigrati, i «politici ladri», le «banche assassine». Un quadro sociologico non estraneo all’efflorescenza populista.
La vecchiaia, però, riflette soprattutto uno sfacelo fisico. Tutti desidereremmo incanutire con la lucidità di Gillo Dorfles, Boris Pahor, Cesare Romiti e tanti altri venerandi rievocati nelle ultime pagine del libro. Purtroppo non è così. Allorché il grande Epicuro dice che non bisogna paventare la morte, perché «quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi», afferma una verità appassita. Oggi, nell’età della tecnica, occorre temere non la morte in sé, ma il morire: un corpo a corpo defatigante e spesso interminabile con la grande mietitrice.
Eppure, nonostante tutto, Pansa riesce a godersi «il piacere della vita nella terza età». È un piacere diluito nelle piccole cose quotidiane, come poter invecchiare insieme alla propria compagna, «nelle stanze dove hai vissuto le stagioni più felici, tra i tuoi ricordi, i libri che hai raccolto, i mobili che hai acquistato, i quadri che ti hanno sempre accompagnato». Continuando a svolgere il lavoro di sempre: «Scrivere mi conferma di essere vivo e mi dà l’illusione di non morire». Ma quello del giornalista è un mestiere effimero. La fama così faticosamente conquistata si sgonfia alla scomparsa della propria firma (una dura «legge», pare enunciata da Ugo Ojetti). Per questo la memoria di Pansa è anche una fossa comune di amici e colleghi, forse ancora vivi, ma già dimenticati (non da lui): «leggo undici quotidiani al giorno. Non faccio altro che constatare l’assenza improvvisa di firme presenti in pagina sino a qualche settimana prima».
Giampaolo Pansa, Vecchi, folli e ribelli. Il piacere della vita nella terza età, Rizzoli, Milano, pagg. 300, € 20