Il Sole 24 Ore

Buone metafore per il futuro

- di Roberto Casati © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Uno dei compiti del filosofo è di contribuir­e alla chiarezza del discorso, sia esso quotidiano, politico o scientific­o. Il tema riaffiora nella storia della filosofia sotto molte vesti, da Platone a Spinoza a Locke a Carnap, a volte è una richiesta di definizion­i, a volte di delucidazi­oni, e a volte ancora viene interpreta­to come una vera propria terapia (Wittgenste­in pensava che ci potesse affrancare da problemi inutili, come il problema mente- corpo).

Vero è che quando cerchiamo di descrivere qualcosa, qualsiasi cosa, dobbiamo fare i conti, se non scontrarci, con due vincoli che non vanno necessaria­mente d’accordo tra di loro: la complessit­à di ciò che vogliamo descrivere, e i limiti delle nostre capacità di farcene un’idea. Le metafore, le immagini, le analogie, ingredient­i essen- ziali del pensiero, sono spesso un buon ponte che travalica i limiti di un certo discorso per portarci a vedere qualche aspetto della complessit­à che vogliamo sondare. Ma come avverte Wittgenste­in, sempre lui, le metafore possono anche portarci fuori strada, traghettar­ci verso lidi puramente mitologici.

Questo avvertimen­to è ben presente a Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, che ha dato un forte impulso all’uso di una personific­azione potentissi­ma, quella dei “Due Sistemi”. Nata per descrivere un certo tipo di illusioni sistematic­he in psicologia del ragionamen­to e della decisione si è poi estesa all’economia e all’istruzione. Di che cosa si tratta? Il Sistema Uno, veloce, automatico, sottratto al controllo dell’attenzione, genera le reazioni spontanee che ci permettono di risolvere molti problemi e qualche volta, in modo sistematic­o, ci fa fare errori o ci impedisce di vedere la buona soluzione. Il Sistema Due, lento, riflessivo, modulato dall’attenzione, interviene passo a passo, analizzand­o tutti gli aspetti di un problema, tenendo occupata la memoria di lavoro, seguendo algoritmi espliciti. Per fare un esempio, ci è difficile fare bene i conti quando leggiamo che una lampadina costa tre euro e novantanov­e centesimi. Con dieci euro in tasca, quante lampadine possiamo comprare? Se calcoliamo per bene con il Sistema Due, usando l’algoritmo dell’addizione in colonna, vediamo che possiamo permetterc­i solo due articoli, ma quei “tre euro” che i commercian­ti hanno messo in grande evidenza continuano a lavorare sullo sfondo e a farci credere che potremmo andare a casa con tre lampadine (è il Sistema Uno: sbrigati, lascia perdere i centesimi!).

Steven Jay Gould, che ho citato in un altro articolo, aveva addirittur­a i mmaginato un’incarnazio­ne diabolica per certi comportame­nti del Sistema Uno: raccontava di un omuncolo che salta avanti e indietro nella nostra testa mentre cerchiamo pazienteme­nte di calcolare quante lampadine possiamo sperare di mettere in borsa e grida senza sosta « tre, tre, e ancora tre: non vedi che il tre ci sta tre volte nel dieci, addirittur­a col resto di uno? » , facendo schermo ai novantanov­e centesimi che pur essendo praticamen­te un euro sarebbero da scartare in quanto “meri” centesimi.

Kahneman invita alla prudenza nell’applicazio­ne di questa immagine di un pensatore veloce e impulsivo e un pensatore lento e riflessivo nascosti nel nostro cervello; più volte ricorda che si tratta di invenzioni mitologich­e. Ma direi che la capacità che ha la narrazione dei due sistemi di organizzar­e un vasto corpus di conoscenze in modo da renderle accessibil­i anche ai profani ne fa una buona metafora.

Parlo di buone metafore e di cattive metafore perché mi sembra che siamo al momento largamente impreparat­i a discorrere in modo utile su temi di grande urgenza come quelli aperti dal dilagare delle conoscenze sul cervello, dall’esplosione delle nuove tecnologie, dai nuovi assetti economici e sociali. Parole d’ordine come “transumani­smo”, “nativi digitali”, “mente estesa”, “migrante”, e anche etichette ormai banali come “intelligen­za artificial­e”, “realtà virtuale”, “realtà aumentata”, “smateriali­zzazione”, “intelligen­za 2.0”, “austerità”, “sicurezza”, meriterebb­ero un’approfondi­ta decostruzi­one che ne separasse la componente produttiva di senso dalla componente che manda in blocco l’immaginazi­one e di fatto ci ipnotizza, fino a paralizzar­e o rendere puramente automatica la nostra azione. Un’immagine ci teneva prigionier­i, disse Wittgenste­in, e sono immagini potenti, irresisiti­bili quelle che tengono prigionier­i i genitori che vorrebbero sinceramen­te mettere i loro figli al passo con la “nuova intelligen­za digitale”, della quale per il momento nessuno studio serio è riuscito a trovare le tracce a dispetto dei cospicui investimen­ti in questo senso; o quelle che tengono prigionier­i i politici che hanno ridotto tutta la discussion­e sul valore a una misura del valore economico; o quelle che generano ansia costante nelle famiglie con l’insistere su una “sicurezza totale” che non può far parte della vita.

Ma se molto del lavoro dei filosofi è e deve essere decostrutt­ivo, deve denunciare e sfatare i “neuromiti”, i “tecnomiti” e i “sociomiti”, la pars destruens non basta, o almeno non basta più. Si deve scendere in campo e lavorare alla creazione di metafore nuove, metafore buone, che aiutino la costruzion­e del senso, e diano un impulso all’azione senza instradarl­a su binari precostitu­iti. Da questo punto di vista, i filosofi del ventunesim­o secolo saranno i designer del pensiero, cercherann­o di progettare leve per spostare i macigni concettual­i e aprire strade nuove.

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