Buone metafore per il futuro
Uno dei compiti del filosofo è di contribuire alla chiarezza del discorso, sia esso quotidiano, politico o scientifico. Il tema riaffiora nella storia della filosofia sotto molte vesti, da Platone a Spinoza a Locke a Carnap, a volte è una richiesta di definizioni, a volte di delucidazioni, e a volte ancora viene interpretato come una vera propria terapia (Wittgenstein pensava che ci potesse affrancare da problemi inutili, come il problema mente- corpo).
Vero è che quando cerchiamo di descrivere qualcosa, qualsiasi cosa, dobbiamo fare i conti, se non scontrarci, con due vincoli che non vanno necessariamente d’accordo tra di loro: la complessità di ciò che vogliamo descrivere, e i limiti delle nostre capacità di farcene un’idea. Le metafore, le immagini, le analogie, ingredienti essen- ziali del pensiero, sono spesso un buon ponte che travalica i limiti di un certo discorso per portarci a vedere qualche aspetto della complessità che vogliamo sondare. Ma come avverte Wittgenstein, sempre lui, le metafore possono anche portarci fuori strada, traghettarci verso lidi puramente mitologici.
Questo avvertimento è ben presente a Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, che ha dato un forte impulso all’uso di una personificazione potentissima, quella dei “Due Sistemi”. Nata per descrivere un certo tipo di illusioni sistematiche in psicologia del ragionamento e della decisione si è poi estesa all’economia e all’istruzione. Di che cosa si tratta? Il Sistema Uno, veloce, automatico, sottratto al controllo dell’attenzione, genera le reazioni spontanee che ci permettono di risolvere molti problemi e qualche volta, in modo sistematico, ci fa fare errori o ci impedisce di vedere la buona soluzione. Il Sistema Due, lento, riflessivo, modulato dall’attenzione, interviene passo a passo, analizzando tutti gli aspetti di un problema, tenendo occupata la memoria di lavoro, seguendo algoritmi espliciti. Per fare un esempio, ci è difficile fare bene i conti quando leggiamo che una lampadina costa tre euro e novantanove centesimi. Con dieci euro in tasca, quante lampadine possiamo comprare? Se calcoliamo per bene con il Sistema Due, usando l’algoritmo dell’addizione in colonna, vediamo che possiamo permetterci solo due articoli, ma quei “tre euro” che i commercianti hanno messo in grande evidenza continuano a lavorare sullo sfondo e a farci credere che potremmo andare a casa con tre lampadine (è il Sistema Uno: sbrigati, lascia perdere i centesimi!).
Steven Jay Gould, che ho citato in un altro articolo, aveva addirittura i mmaginato un’incarnazione diabolica per certi comportamenti del Sistema Uno: raccontava di un omuncolo che salta avanti e indietro nella nostra testa mentre cerchiamo pazientemente di calcolare quante lampadine possiamo sperare di mettere in borsa e grida senza sosta « tre, tre, e ancora tre: non vedi che il tre ci sta tre volte nel dieci, addirittura col resto di uno? » , facendo schermo ai novantanove centesimi che pur essendo praticamente un euro sarebbero da scartare in quanto “meri” centesimi.
Kahneman invita alla prudenza nell’applicazione di questa immagine di un pensatore veloce e impulsivo e un pensatore lento e riflessivo nascosti nel nostro cervello; più volte ricorda che si tratta di invenzioni mitologiche. Ma direi che la capacità che ha la narrazione dei due sistemi di organizzare un vasto corpus di conoscenze in modo da renderle accessibili anche ai profani ne fa una buona metafora.
Parlo di buone metafore e di cattive metafore perché mi sembra che siamo al momento largamente impreparati a discorrere in modo utile su temi di grande urgenza come quelli aperti dal dilagare delle conoscenze sul cervello, dall’esplosione delle nuove tecnologie, dai nuovi assetti economici e sociali. Parole d’ordine come “transumanismo”, “nativi digitali”, “mente estesa”, “migrante”, e anche etichette ormai banali come “intelligenza artificiale”, “realtà virtuale”, “realtà aumentata”, “smaterializzazione”, “intelligenza 2.0”, “austerità”, “sicurezza”, meriterebbero un’approfondita decostruzione che ne separasse la componente produttiva di senso dalla componente che manda in blocco l’immaginazione e di fatto ci ipnotizza, fino a paralizzare o rendere puramente automatica la nostra azione. Un’immagine ci teneva prigionieri, disse Wittgenstein, e sono immagini potenti, irresisitibili quelle che tengono prigionieri i genitori che vorrebbero sinceramente mettere i loro figli al passo con la “nuova intelligenza digitale”, della quale per il momento nessuno studio serio è riuscito a trovare le tracce a dispetto dei cospicui investimenti in questo senso; o quelle che tengono prigionieri i politici che hanno ridotto tutta la discussione sul valore a una misura del valore economico; o quelle che generano ansia costante nelle famiglie con l’insistere su una “sicurezza totale” che non può far parte della vita.
Ma se molto del lavoro dei filosofi è e deve essere decostruttivo, deve denunciare e sfatare i “neuromiti”, i “tecnomiti” e i “sociomiti”, la pars destruens non basta, o almeno non basta più. Si deve scendere in campo e lavorare alla creazione di metafore nuove, metafore buone, che aiutino la costruzione del senso, e diano un impulso all’azione senza instradarla su binari precostituiti. Da questo punto di vista, i filosofi del ventunesimo secolo saranno i designer del pensiero, cercheranno di progettare leve per spostare i macigni concettuali e aprire strade nuove.