Il tempo pieno dell’attesa
Le scelte di vita non sono facili per le giovani donne dei nostri tempi e paesi, strette come si ritrovano tra Scilla e Cariddi. Da una parte le si esorta a entrare a testa alta nel mondo dell’istruzione e del lavoro, della creatività e della produzione, per conquistarsi la dignità che nasce dall’ indipendenza e dall’autonomia; dall’altra le si spinge, in maniera neanche tanto celata e magari con iniziative imbarazzanti quali il «Fertility Day», ad assumere il ruolo materno dedicandosi alla procreatività e alla riproduzione, ambiti nei quali indipendenza e autonomia rischiano di cadere in briciole e che possono rivelarsi di ostacolo al rientro nel mondo del lavoro.
Che fare? Non si tratta di accettare un destino – afferma Silvia Vegetti Finzi in questo esercizio di psicologia narrativa – ma di cogliere opportunità. Soprattutto non si tratta di credere a chi ti racconta che la maternità è la massima realizzazione della donna, che senza di essa non sarebbe completa, ma di capire che essa è comunque un’esperienza forte e importante; nelle parole dell’Autrice, una «impareggiabile occasione di felicità perché a ogni nascita il mondo si rinnova» (p. 121).
Ora, la maternità, se non è un destino, non è nemmeno determinata e guidata dall’istinto che la specie umana, se mai ha posseduto, ha ormai perduto, cancellato come è stato «dall’aratro della civiltà». Tutto va riscoperto e ripensato anche nella gravidanza e nel parto. E allora Lena/ Silvia propone la riscoperta e il ripensamento della storia della sua prima gravi- danza reale e del suo primo parto, condotti procedendo a vista, in una Milano degli anni Sessanta scossa da energiche spinte di ricostruzione materiale e di rinnovamento sociale e ideale.
La narrazione apre un percorso nel quale ci si può identificare in quella attesa di qualcuno che è insieme estraneo e familiare, di quel piccolo ospite che si presenta a Lena/Silvia facendole avvertire la sensazione strana e intima di un frullar d’ali in una mattina d’inverno, sul tram numero 28 che attraversa il quartiere del Giambellino, quello immortalato qualche anno prima dalla Ballata del Cerutti.
Nonostante alcune tonalità misticheggianti nella lettura poetica e iconografica, che non condividiamo pur avendo affrontato diversi percorsi di gravidanza e maternità, l’analisi di Vegetti Finzi procede in maniera mai dimessa, anzi su una tonalità alta, dove il sostegno della psicologia e il riferimento alla psicoanalisi sono sempre presenti; e la storia di questa attesa, alla fine della quale si compie il paradosso matematico per cui uno più uno fa tre, scorre via leggera come il frullio d’ali che aveva annunciato alla protagonista l’arrivo dell’ospite più atteso.
Eppure, benché paradigma di ogni attesa, la gravidanza è oggi penalizzata dal fatto che non sappiamo più attendere e che il sabato del villaggio ha perso ogni fascino nel nostro mondo di corsa, dove si vuole solo che arrivi la domenica per non sapersene poi che fare.
Silvia Vegetti Finzi, L’ospite più atteso. Vivere e rivivere le emozioni della maternità , Einaudi, Torino, pagg. 240, € 12