L’Unione che vorremmo
Se difficilmente potremo dimenticare la parola Bataclan e l’orrore di quelle immagini, o la ferocia delle esecuzioni di «Charlie Ebdo», rischia di sbiadire nella polvere del tempo il nome di Jo Cox, la deputata britannica uccisa da un estremista che non sopportava di vederla fare campagna per scongiurare la Brexit. Assassinata a coltellate e colpi di pistola a Leeds, nel suo collegio elettorale, perché europeista.
A Jo Cox, 42 anni, la presidente della Camera Laura Boldrini ha dedicato la Commissione di studio sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio. E alcuni passaggi del suo ultimo libro, La comunità possibile (Marsilio), nel quale l’autrice rievoca gli ultimi due anni del percorso europeo scegliendo una efficace chiave biografica: d’un lato ci sono il calore e l’immediatezza di chi ha vissuto in prima persona un’esperienza e la racconta, dall’altro c’è il ruolo istituzionale con quel che ne consegue (senso dell’iniziativa, ostacoli, arte della mediazione). Il fil rouge, pagina dopo pagina, è indiscutibile: serve più Europa, non c’è altra risposta contemplabile, anche alle emergenze più critiche come quella dei massicci flussi migratori che raggiungono il nostro continente.
Il libro si apre con un flash a gennaio 2015, alla vigilia delle elezioni che decreteranno la vittoria di Alexis Tsipras: è l’accelerazione della crisi greca. Più tardi il Fondo monetario non esclude l’uscita di Atene, la cui popolazione è sottoposta a tensioni insostenibili, dall’Eurozona. Qui nasce l’idea di fare qualcosa, di dare un segnale che un’altra Europa è possibile, osserva Boldrini: il progetto dei Padri fondatori prevede una dimensione umana, si basa sul ri- spetto delle regole ma senza venir meno al principio di giustizia sociale, cioè l’esatto contrario di quanto stava accadendo nel Paese ellenico allo stremo. «Noi presidenti di Parlamenti dovremmo riunirci, parlarne e sottoscrivere una dichiarazione di intenti», dice Boldrini a Mars Di Bartolomeo, presidente della Camera del Lussemburgo, allora alla guida del semestre europeo, che si dichiara immediatamente d’accordo. È il primo passo che porta alla nascita della Dichiarazione di Roma, lanciata nel settembre nel 2015 e firmata inizialmente da Italia, Francia, Lussemburgo, Germania e, poi, accolta da 15 presidenti di altrettanti Parlamenti.
Nel racconto si percepisce la distanza tra Paesi, con l’euroscetticismo di alcuni Stati dell’Est e del Regno Unito; emerge il concetto dell’Europa a due velocità che l’autrice sposa con convinzione («Chi ritiene che la sola risposta possibile alle grandi sfide del presente sia
un’Europa più unita e più forte deve poterla attuare, senza essere frenato da chi non ci sta»); si evoca la drammaticità del fenomeno di migliaia di migranti che si spostano alla ricerca di un futuro migliore e di episodi che segnano per sempre la nostra memoria (il cadavere di Aylan, il bimbo siriano annegato sulle coste della Turchia).
La comunità possibile è un utile memento e indica una rotta precisa e ambiziosa: bisogna puntare a un’Europa federale, dotata di nuove e più ampie competenze esclusive (a partire dal bilancio), con un Parlamento «eletto sulla base di liste transnazionali, identiche per ciascun partito europeo in tutti gli Stati membri». La strada è lunga. Come ha ricordato Donald Sassoon sulla Domenica del 19 marzo,«non esiste una cultura europea comune, non esiste uno Stato sociale europeo, non esiste un esercito europeo, non esiste un patriottismo europeo». Allora bisogna agire in fretta. Nel nome di Jo Cox.
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