Disegni dello Sp agnoletto
Gabriele Finaldi (direttore della National Gallery di Londra) ha compiuto una ricognizione completa dei fogli di Ribera
La storia ha bisogno di eroi: al suo passaggio per Napoli toccò a Caravaggio creare la fisionomia della pittura napoletana. Ma Caravaggio teneva in grande disprezzo l’arte del disegno e infatti, nonostante i chiassosi interventi di dilettanti non particolarmente stimati, ancora oggi non esiste un solo foglio certo del celebre pittore. E se eliminiamo Caravaggio è solo per sostituirlo con Ribera (1591-1652) il quale occupa nello sviluppo del disegno napoletano la stessa posizione chiave che il Caravaggio ha nella pittura. Questa idea è stata avanzata quasi mezzo secolo fa, nel 1971, ultimo anno della sua vita terrena, da Walter Vitzthum, il più sottile conoscitore, allora e forse ancora oggi, del disegno barocco italiano.
Da poco si è tenuta nel Museo del Prado una bellissima mostra col titolo José de Ribera. Dibujos. La mostra però non comprendeva tutti i fogli pubblicati nel volume che in realtà è il catalogo completo dei disegni dell’artista (inclusi quelli su cui restano dubbi e addirittura quelli non accettati). Finita la mostra resta questo importante volume curato da uno dei maggiori conoscitori dell’argomento, Gabriele Finaldi, per diversi anni vicedirettore del Prado e ora direttore della National Gallery di Londra. La pubblicazione esamina attentamente i centocinquantacinque fogli che si considerano di mano dello Spagnoletto, come veniva chiamato a Napoli - dove visse quasi sempre e dove morì poco più che sessantenne - Giuseppe (José o Jusepe) de Ribera.
I disegni di Ribera compongono un insieme impressionante e misterioso: il loro numero si è quadruplicato dai tempi di Vitzthum. Anche gli studi della sua pittura hanno avuto risultati fecondi come dimostrano le esposizioni e le monografie di Nicola Spinosa e di Alfonso Pérez Sánchez a Napoli e a Madrid, e ancora le più recenti investigazioni di Gianni Papi ( Ribera a Roma, 2007) che rivelarono l’attività del giovane valenzano nell’Urbe fra il 1606 e il 1616. In quel decennio le sue pitture erano note ma nei nostri tempi erano nascoste sotto l’appellativo di Maestro del Giudizio di Salomone (un gruppo formato attorno ad una composizione della Galleria Borghese e ad una serie di Apostoli della collezione di Roberto Longhi). La produzione romana è stata anche creduta di pittori poco conosciuti come Gerard Douffet e talvolta persino dello stesso Ribera ma senza troppa convinzione e senza alcun conforto documentario. Nel 1616 Ribera si trasferisce - questo è un dato di fatto - a Napoli. La città era capitale di un vicereame spagnolo e nello stesso tempo capitale d’arte, con Siviglia, della Spagna. Ribera vi diventa uno dei grandi pittori d’Europa che come pensano alcuni - non tutti - in qualche modo contribuirà alla formazione del genio di Velázquez ma resta irrisolto il modo in cui il sommo pittore spa-
gnolo possa aver conosciuto le opere di Ribera che non si allontanò mai dall’Italia. È curioso che Ribera sia a tutt’oggi considerato solo un artista spagnolo così come Nicolas Poussin è ritenuto francese. Ci sono ad ogni modo delle differenze: lo Spagnoletto venne in Italia attorno ai quindici anni mentre Poussin era sulla trentina quando si stabilì a Roma nel 1624, dove morì nel 1665: ma era tornato un paio di anni in Francia fra il 1640 e il 1642. Ad ogni modo non pare che Ribera abbia fatto un solo disegno nel suo paese di origine e forse pochi o nessuno prima di stabilirsi a Napoli.
Nel presente studio, redatto con intelligente chiarezza, Finaldi nota come i disegni di Ribera siano agili e laconici, diversamente dalle sue pitture, e non facilmente associabili ad esse. Si deve anche notare come siano pochi i fogli preparatori per i dipinti. Le tecniche usate sono molto diverse fra loro e a un primo sguardo quasi contraddittorie: alcuni fogli sembrano rapidissimi, con brevi tocchi di penna quasi fossero tracciati da un dattilografo; altri, soprattutto quelli a sanguigna, sono molto ben rifiniti e raggiungono una grazia quasi settecentesca. In altre carte ancora, dove accosta la sanguigna alla matita nera, tocche entrambe di inchiostro, si arriva ad una preziosità da miniaturista: penso ad esempio al Sansone e Dalila del Museo di Córdoba. Quasi un secolo fa, l’ispanista tedesco August L. Mayer, in un suo volume del 1923, conosceva soltanto una dozzina di disegni di
Ribera eppure erano già note le sue poche ma ottime incisioni, prova delle sue capacità come disegnatore. Quest’aspetto fu bene analizzato in un altro studio sulla grafica del nostro napoletano spagnolo, Jusepe de Ribera. Prints and Drawings (Princeton, 1973) dove Jonathan Brown esaminava tutte le incisioni e molti disegni. Per questi ultimi l’autore propose una divisione in quattro periodi iniziando col 1620. Brown notava già allora come la tecnica favorita fosse quella a penna: non è forse la più bella ma certamente la più originale, l’inchiostro corre attorno alle figure talvolta senza darsi la pena di unire tutte le linee facendole indovinare più che vedere con un geniale senso dell'economia formale. La stessa penna consegue con tratti ripetuti e veloci un senso dello spazio e della luce molto convincenti: sono, si direbbe, appunti e impressioni che portano dritto alle figure inquiete di un Piranesi.
In una lettera al fratello del 7 aprile 1617 Giulio Mancini, un medico senese di grande cultura, buon amico dei pittori della sua epoca a Roma e archiatra di Urbano VIII che lo teneva in grande stima, parla di aver acquistato un quadro del Ribera e accenna alla vita personale del pittore che non sembra lettura adatta per persone pie: «lo Spagnioletto adesso si ritrova in Napoli con gran fasto e reputatione et non ha tanto eccesso nel arte quanta manigoldaria nel costume di puttane, di magniare, sbriconare et con esso più una semplicità vigliacca… letti numero uno disteso in terra dove tutti dormivano chi mettendo il capo e chi un po’ di corpo». Questi suoi non illibati costumi non impedivano il successo artistico né l’apprezzamento dei suoi quadri da parte di Filippo IV, protettore di Velázquez e proprietario di una cinquantina di dipinti del Ribera. D’altro canto le sue inclinazioni spiegano forse le ossessioni erotiche e una palese attrazione per torture e bizzarrie manifeste in molti suoi disegni e in alcuni quadri. Questo lato oscuro di Ribera che non tutti ammettono a me sembra ovvio se si guardano molte sue opere con gli occhi aperti. Storici dell’arte come Pérez Sánchez e Ellis Waterhouse cercano di mitigare queste impressioni facendo presente che Ribera fosse più incline alla penitenza che al martirio - questione di gradazione, dove inizia l’una e dove sconfina l’altro? Certo è che in molti disegni è chiaro l’uso di fruste, cilici, pali appuntiti e altri strumenti di commercio poco piacevole che non sembrano simboli di tenerezza. Molti suoi eroi sono legati in modo inspiegabile ad alberi o dediti ad occupazioni morbose o violente. In questo volume Finaldi spiega la situazione con eleganza: «nel mondo privato dell’inchiostro, della penna e della carta Ribera trovò lo spazio e la libertà per investigare soggetti torbidi, sadici o vietati», spiegazione molto signorile di quelli sembrano echi di cronache nere (a pagina 387 del volume l’autore fornisce una delucidazione delicata di come si adopera un clistere). Il carmelitano bolognese Pellegrino Orlandi parlava schietto e nel suo Abecedario pittorico così sintetizza il gusto del Ribera: «tanto si stabilì negli orrori, che si fece connaturale in dipingere dilaniati Bartolomei, arrostiti Lorenzi, Stefani lapidati… e simili tragiche operazioni», ma queste tragiche operazioni sono spesso straordinarie opere d’arte. Ciononostante Ribera vecchio sentiva nostalgia di Roma e avrebbe voluto rivedere «le storie dell’immortale Raffaello dipinte nelle stanze dei Sacri Palazzi». Forse ci sorprende oggi che Ribera nutriva un’ammirazione sconfinata per Guido Reni.