Ridere contro la cattiveria
Il principe e il comico condividevano una visione tragica della vita. Per questo «far ridere è compiere un’opera buona »
Morì il 15 aprile 1967, per infarto, il principe Antonio de Curtis, in arte Totò. A Oriana Fallaci, che nel 1963 gli chiese se aveva paura di morire, aveva risposto: «La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto». Alla morte, Totò aveva dedicato alcune scene di film come Totò all’inferno, 47 il morto che parla, Totò cerca casa, Totò e i re di Roma, Napoli milionaria, mentre il principe aveva evocato la morte nelle sue poesie, come A’ livella, la più famosa, dove immagina il dialogo al cimitero fra le ombre di due defunti, fra l’arrogante marchese di Belluno e il suo coinquilino di tomba, Esposito Gennaro netturbino, povero e fetente, che però impartisce al nobile marchese un lezione sull’eguaglianza di tutti, nobili e spazzini, sotto la livella della morte.
Per quaranta anni acclamato dal pubblico nei panni di Totò, Antonio de Curtis non credeva che avrebbe lasciato traccia come attore: «Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui... ma di ciò che facciamo noi non rimane un bel nulla». Lo pensavano anche i critici, che salvo rare eccezioni, avevano disprezzato gran pare dei suoi film, definendoli “totoate”. E lui stesso, dei cento film girati, ne salvava quattro o cinque. «Non credo che dopo la morte avrò mai un monumento e neanche un monumentino», pensava il principe.
Eppure, una volta disse alla compagna Franca Faldini: «Vedrai, quando sarò morto e non più scomodo per nessuno, daranno la stura ai paroloni e, rispolverando la mia vis comica, affermeranno che se non me ne fossi andato mi avrebbero visto per questo o quel personaggio, chi meglio di me avrebbe potuto farlo? Non vanno sempre così le faccende a casa nostra? Questo è un bellissimo paese in cui però una ha da morire per essere compreso». Forse era ironico, e invece fu preveggente. Nei
cinquanta anni dopo la morte del principe, la sua incarnazione nel personaggio Totò ha generato un mito popolare e un fenomeno culturale, forse destinato all’immortalità. O quasi.
Al “fenomeno Totò” sono dedicati biografie, saggi, antologie, repertori, corsi universitari, mostre e convegni nazionali e internazionali. Di Totò si occupano critici e storici del cinema, filologi, filosofi, sociologi, linguisti, letterati, antropologi. Certe sue espressioni tipiche sono entrate nei dizionari. Una filologa ha scritto che la «sperimentazione praticata da Totò» nella comunicazione con la sua «capacità attoriale e personale» gli permetteva di «ottenere una gamma di usi inediti sia lessicali sia morfologici e sintattici, probabilmente etichettabili come un livello di metavariazione delle variazioni d’uso dell’italiano contemporaneo, a cui si connette costantemente una rete di rimandi e riformulazioni».
«Ostrega!», avrebbe esclamato de Curtis di fronte alla postuma fama di Totò. Fregiandosi del titolo di Altezza imperiale, legittimo erede del trono di Costantinopoli, de Curtis ostentava disprezzo verso Totò, che pure gli consentì di vivere da gran signore, dopo un’infanzia e una giovinezza in miseria. Al principe, Totò non piaceva «neanche un po’»: «questo Totò, parola mia d’onore, non mi diverte per niente». L’Altezza imperiale asseriva che vi era «una differenza abissale» fra il principe e il comico: Antonio de Curtis era serio, riservato, silenzioso, triste, malinconico: «sono un funerale di prima classe»; Totò invece era sguaiato, ridanciano, «aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita», come lo definiva il suo stesso artefice.
Sulla “differenza abissale” fra il principe e il comico si è scritto molto insistendo sulla contrapposizione fra la volgarità plebea di Totò e l’aristocratica serietà del principe, discendente dall’imperatore Costantino e ultimo erede del trono di Bisanzio. Lo sdoppiamento era forse una concessione all’immagine romantica del clown che dietro la maschera cela un uomo infelice.
Infelice il principe lo era davvero, e lo dichiarava: «Sono nato cinico e malinconico co- me se sapessi già tutto... Forse per questo io sono triste. Pessimista. Pes-si-mi-stis-simo». Al pessimismo avevano contribuito la nascita da padre ignoto, la povertà fino ai venti anni, le dure esperienze come aspirante attore, le passioni d’amore deluse. Con gli anni, neppure il successo con il pubblico e con le donne attenuarono il suo pessimismo: «La felicità per me non esiste. Ci possono essere momenti in cui si dimenticano le cose brutte. La felicità è un fatto di dimenticanza». E in versi napoletani ribadiva: «Felicità…/ vurria sapé ched’è chesta parola/ vurria sape’ che vvo’ significà/ sarà ’gnuranza ’a mia, mancanz’e scola / ma chi ll’ha ’ntiso maje annummenà».
In verità, fra il principe e l’attore lo sdoppiamento era solo apparente. Lo riconosceva lo stesso de Curtis quando rifletteva sulla sua arte comica. Privo di cultura, avendo conseguito appena la licenza elementare, il principe era un acuto osservatore della vita e rifletteva sul suo significato: «Io penso sempre, sono un pensatore, penso il giorno, la notte, e penso che in fondo non siamo nessuno». In un breve racconto autobiografico, de Curtis descrisse un giovane attore Antonio, che portava sul volto «quasi una maschera tragica: il viso scavato da rughe, l’occhio fermo e severo, il naso aquilino su una bocca a taglio netto, lo dicevano nato per i ruoli fortemente drammatici: invece era divenuto un comico, quasi avesse voluto scegliere la via più lunga e difficile per giungere al successo. I primi anni erano stati duri: il pubblico, uso a una comicità senza contenuto di pensiero, non sapeva assuefarsi al grottesco elaborato con il cuore e con l’intelligenza, alle pantomime che, se in superficie slargavano al riso, nel fondo compendiavano tutto l’amaro della vita».
Il pessimismo era la matrice della comicità di Totò, elaborata col cuore e con l’intelligenza. La comicità di Totò, spiegava il principe, è «un fatto istintivo che trova riscontro nella cattiveria umana... la comicità vera ha sempre un fondo macabro, tragico. La mia comicità è di questo tipo». Per de Curtis-Totò, però, la comicità doveva distrarre dalle tristezze della vita: «L’ilarità fa bene al sangue e distende i nervi: perciò far ridere è come compiere un’opera buona», diceva il principe. E «se il comico agisce anche col desidero di dare un senso umano alle cose che fa, che egli offre alla gente, per aiutarli a vivere, allora sarà permesso di aggiungere al suo nome l’appellativo di “grande” o di “eccellente”».
Scrisse Giacomo Leopardi: «Delle cose veramente ridicole nella società o negl’individui è ben raro trovar chi ne rida. E s’alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l’aiuti a farlo». Per ridere delle cose veramente ridicole nella società e negli individui, non si può trovare forse miglior compagno di Totò. Che sa anche aiutare a vivere fra la cattiveria umana e la vanità del tutto. E pertanto merita l’appellativo di grande e di eccellente.