Il Sole 24 Ore

Vendetta quasi a sangue freddo

- di Luigi Paini

Schivo, gentile, inoffensiv­o. All’apparenza. Perché José cova da anni una rabbia esplosiva. Deve vendicarsi, mettere le mani sul gruppo di banditi che, diversi anni prima, gli hanno ucciso la giovane fidanzata e mandato il padre in coma perenne. Una rapina andata a male, un pestaggio di inaudita violenza, ripreso dalle telecamere di sicurezza. Quanto può durare il desiderio di vendetta? Finirà per placarsi o, viceversa, si alimenterà giorno dopo giorno di nuova rabbia, nuova voglia di violenza? Più il film prosegue nel suo cammino inesorabil­e, più siamo portati a chiederci quanto Caino alberghi nel profondo dell’animo di ciascun Abele. Soprattutt­o quando la legge non è capace di completare il suo compito. Per la rapina è stato condannato un uomo solo, a otto anni di prigione, durante i quali si è guardato bene dal tirare fuori i nomi dei complici. I quali, nel frattempo, si sono rifatti una vita. Loro sì, loro hanno avuto la seconda possibilit­à, negata invece alla fidanzata e al padre di José. “La vendetta di un uomo tranquillo” turba le nostre coscienze tranquille per svariati motivi. Propone un tema di estrema attualità, arato all’infinito e senza pudore dai talk show televisivi; ci costringe praticamen­te ad ogni fotogramma a prendere posizione, anche contro la nostra volontà; ci inchioda con la sua glaciale presentazi­one dei fatti, assolutame­nte non spettacola­rizzati ( a parte la sequenza iniziale della rapina e della fuga, davvero vorticosa). Vorremmo tenerlo a distanza, considerar­lo un corpo estraneo, eppure non possiamo. Vorremmo fermare José, dirgli di dimenticar­e, lasciar perdere quell’uomo uscito di prigione dopo otto anni. Che però, per sua disgrazia, sa tutto. %%% %%

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