Il Sole 24 Ore

Grand Tour alla moda

Nel ’700 viaggiator­i come Goethe si facevano ritrarre tra paesaggi e rovine. Ispirando poi «Vogue» e « Harper’s Bazaar »

- Di Emanuele Papi

Nel 1961 una troupe di indossatri­ci e fotografi raggiunse la vetta del monte Nemrut, nella Turchia sudorienta­le, e i resti spettacola­ri della tomba ellenistic­a di Antioco I re della Commagene, mentre Theresa Goell, pioniera dell’archeologi­a americana, si trovava in missione sul sito. L’inatteso Carro di Tespi era stato spedito da Diana Vreelend, caporedatt­rice di Harper’s Bazaar, per un servizio fotografic­o tra le rovine. La Goell non poté trattenere la rabbia: la compagnia era arrivata senza preavviso, scorrazzav­a tra i suoi resti archeologi­ci, aveva ospitato le modelle nel campo base invece di spedirle a valle dove sarebbero state divorate dagli orsi, protestand­o con le autorità locali si era sentita dire: dopotutto il monumento appartiene ai Turchi.

Il numero di Harper’s Bazaar uscì con una top model in copertina, mentre guarda il sole appoggiata alla testa ciclopica di un dio barbuto, e l’idea di esibire vestiti nuovi sullo sfondo di rovine antiche sembrò una felice trovata. Su Vogue le indossatri­ci comparivan­o di continuo in stile optical art a Karnak, in lamé davanti alle facciate rupestri di Petra, in chiffon bianchi ispirati ai pepli o ai chitoni tra le colonne di Palmyra.

Le figure alla moda tra le rovine non erano però una novità e nei quadri erano state dipinte da parecchio tempo. I fondali archeologi­ci con le sacre famiglie e i santi furono concessi dal ’700 anche ai viaggiator­i del Grand Tour, che erano molto attenti all’abbigliame­nto. Come Goethe: semidistes­o nella campagna romana sullo sfondo la tomba di Cecilia Metella, aveva posato nel 1787 per Tischbein avvolto in un immacolato pastrano e con un cappellone di feltro. Sotto il drappeggio mostra abiti poco campestri: scarpini neri, calze bianche, calzoni di raso beige, camicia con lavallière, marsina rosso Batoni.

Pompeo Batoni fu il ritrattist­a più ricercato dagli esteti britannici che nel ’700 oziavano in giro per l’Italia (ne ritrasse più di 150 e nessuno porta un nome che non dice niente). Batoni faceva posare gli eminenti georgiani su un fondale di antichità, vestiti all’ultimo grido con l’habit à la française: gilet, giusta- cuore e pantaloni attillati, calze di seta bianca, scarpe col tacco. Una tinta ricorrente negli indumenti è l’aragosta più o meno foncé, il rosso Batoni per l’appunto. Nessuno volle mettersi le lunghe e scure rendingott­e o gli stivali che si indossavan­o oltre Manica. Solo il colonnello Gordon scelse di vestirsi alla scozzese con il tartan di ordinanza degli Highlander­s (coordinato fin nell’impugnatur­a della spada), con una lunghissim­a fusciacca che faceva pensare a una toga. Quando i damerini ritornavan­o in Inghilterr­a continuava­no la fiera delle vanità e a darsi le arie come avanguardi­sti del dandysmo, la cui esistenza consisteva nell’indossare abiti (Carlyle) con l’irremovibi­le determinaz­ione a non essere coinvolti (Baudelaire).

Nel 1841 l’inglese Thomas Cook fondò una ditta destinata a un grande avvenire: i viaggi di gruppo. Cook era contro l’alcolismo e pensava che portare le persone lontano da casa favorisse l’astinenza, tanto più se andavano nei luoghi santi come l’Egitto di Mosè, la Palestina di Gesù e la Roma cristiana. Era animato sia dall’etica protestant­e che dallo spirito del capitalism­o e la Thomas Cook & son’s andava a gonfie vele. Cook inventò anche la foto di

| In alto: «Goethe nella campagna romana», di Wilhelm Tischbein. 1787; a sinistra la copertina di «Harper’s Bazaar» del 1962 sul Monte Nemrut in Turchia; accanto, il Colonnello Gordon ritratto da Pompeo Batoni (1765)

gruppo: i borghesi vittoriani si arrampicav­ano sulle piramidi, stazionava­no davanti ai templi di Luxor o sedevano bellamente all’hotel Old Cataract di Assuan per una foto ricordo, accanto ai nativi che assicurava­no il tocco di colore. I dagherroti­pi hanno immortalat­o quei signori nei loro inflessibi­li e abbottonat­i capi alla moda. Gli uomini vestivano la divisa coloniale con i caschi usati per ripararsi dal sole dell’impero, giacca, cravatta, pantaloni a sbuffo e stivali (spesso anche con un fucile) oppure una tenuta civile più conformist­a. Le signore non rinunciava­no alla crinolina e a tutta la gamma di cappelli da passeggio popolati da flora e fauna (al posto dell’arma, impugnano l’ombrellino).

Negli anni ’30 andando a scavare in Siria con il marito archeologo Max Mallowan, Agatha Christie organizzò il bagaglio eliminando i capi gualciti, sformati e cadenti e comprando confezioni più adatte alle mogli dei Costruttor­i dell’Impero. Gli archeologi erano eleganti, a volte un po’ stropiccia­ti dal caldo. Sir Arthur Evans, scopritore del palazzo di Cnosso e fondatore della civiltà minoica, fu ritratto nel 1907 in mezzo ai suoi reperti con lo sguardo verso l’orizzonte e un impeccabil­e completo bianco con fiore lilla all’occhiello. Un altro Sir, Leonard Wolley, appariva come un gentiluomo di campagna: negli anni ’10 era insieme a Lawrence d’Arabia (non ancora travestito da beduino) negli scavi di Karkemish in Turchia e si faceva fotografar­e in tweed e fedora o con una casacca scura bordata di bianco.

Tra gli archeologi del ’900 la palma dello chic va a Katherine Wolley, la moglie di Wolley. Aveva cominciato a collaborar­e come volontaria negli scavi di Leonard a Ur, la patria di Abramo in Iraq. Dopo tre anni lo aveva sposato per interesse, per far tacere le chiacchier­e (era l’unica donna dell’équipe) e rimanere sugli scavi come moglie del direttore. Era una donna di temperamen­to: per Mallowan avere a che fare con lei era come camminare su una corda, Gertrude Bell la giudicava pericolosa, Agatha Christie la trovava straordina­ria, ne fece un personaggi­o di Murder in Mesopotami­a e la uccise. Katherine e Leonard furono fotografat­i nel 1928 mentre scavano seduti schiena contro schiena, lei su un cuscino bianco e lui con un metro e un calepino, sembrano Katherine Hepburn e Spencer Tracy. Katherine è vestita di chiaro alla garçonne, pantaloni alla zuava, blusa e cappello a cloche. Al giorno d’oggi si incontrano di rado individui abbigliati con stile tra i resti archeologi­ci, la divisa dei turisti consiste in panni smessi e capi tecnologic­i per imprese sportive, gli archeologi si mettono quel che capita. I ritratti non sono più affidati a pittori e fotografi, sostituiti da un bastone e dal telefonino fai-da-te. Per la moda si scelgono più volentieri le rovine industrial­i, anche se Gucci ha tentato di ripristina­re il vecchio costume contro la sacrosanct­itas dell’Acropoli di Atene (come una sfilata al Santo Sepolcro).

Vecchi ruderi e nuovi abiti esprimono idee contrarie nei ritratti dei nobili, nelle fotografie dei turisti middle class, di modelle e anche di archeologi al lavoro (forse incoscient­i dell’ossimoro). I vestiti alla moda sono moderni, un termine ( modernus) creato nel V secolo d.C. dal papa Gelasio I con il significat­o di presente, contempora­neo, di questo momento, in opposizion­e ad antiquus.

Giacomo Leopardi offre una chiave per aprire la corrispond­enza tra ruderi e moda (certamente deve aver incrociato qualche esclusivo visitatore in giro per Roma e Pompei). Nel Dialogo della Moda e della Morte (1824) Moda e Morte sono sorelle, figlie di Caducità. Il loro compito è disfare e rimutare di continuo le cose di quaggiù. La Morte semina ossami e pelverumi (per i) molti che si erano vantati di essersi fatti immortali, la Moda in contrasto ha levato l’usanza di cercare l’immortalit­à. Con Leopardi tutti d’accordo: la principess­a Bibesco pensava che la moda fosse necessaria più di ogni altra cosa perché conferisce un potere nuovo, quello di ricreare la vita; per Walter Benjamin la moda non è altro che l’eterno ritorno del nuovo e per Roland Barthes la moda ... diritto naturale del presente sul passato.

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