Grand Tour alla moda
Nel ’700 viaggiatori come Goethe si facevano ritrarre tra paesaggi e rovine. Ispirando poi «Vogue» e « Harper’s Bazaar »
Nel 1961 una troupe di indossatrici e fotografi raggiunse la vetta del monte Nemrut, nella Turchia sudorientale, e i resti spettacolari della tomba ellenistica di Antioco I re della Commagene, mentre Theresa Goell, pioniera dell’archeologia americana, si trovava in missione sul sito. L’inatteso Carro di Tespi era stato spedito da Diana Vreelend, caporedattrice di Harper’s Bazaar, per un servizio fotografico tra le rovine. La Goell non poté trattenere la rabbia: la compagnia era arrivata senza preavviso, scorrazzava tra i suoi resti archeologici, aveva ospitato le modelle nel campo base invece di spedirle a valle dove sarebbero state divorate dagli orsi, protestando con le autorità locali si era sentita dire: dopotutto il monumento appartiene ai Turchi.
Il numero di Harper’s Bazaar uscì con una top model in copertina, mentre guarda il sole appoggiata alla testa ciclopica di un dio barbuto, e l’idea di esibire vestiti nuovi sullo sfondo di rovine antiche sembrò una felice trovata. Su Vogue le indossatrici comparivano di continuo in stile optical art a Karnak, in lamé davanti alle facciate rupestri di Petra, in chiffon bianchi ispirati ai pepli o ai chitoni tra le colonne di Palmyra.
Le figure alla moda tra le rovine non erano però una novità e nei quadri erano state dipinte da parecchio tempo. I fondali archeologici con le sacre famiglie e i santi furono concessi dal ’700 anche ai viaggiatori del Grand Tour, che erano molto attenti all’abbigliamento. Come Goethe: semidisteso nella campagna romana sullo sfondo la tomba di Cecilia Metella, aveva posato nel 1787 per Tischbein avvolto in un immacolato pastrano e con un cappellone di feltro. Sotto il drappeggio mostra abiti poco campestri: scarpini neri, calze bianche, calzoni di raso beige, camicia con lavallière, marsina rosso Batoni.
Pompeo Batoni fu il ritrattista più ricercato dagli esteti britannici che nel ’700 oziavano in giro per l’Italia (ne ritrasse più di 150 e nessuno porta un nome che non dice niente). Batoni faceva posare gli eminenti georgiani su un fondale di antichità, vestiti all’ultimo grido con l’habit à la française: gilet, giusta- cuore e pantaloni attillati, calze di seta bianca, scarpe col tacco. Una tinta ricorrente negli indumenti è l’aragosta più o meno foncé, il rosso Batoni per l’appunto. Nessuno volle mettersi le lunghe e scure rendingotte o gli stivali che si indossavano oltre Manica. Solo il colonnello Gordon scelse di vestirsi alla scozzese con il tartan di ordinanza degli Highlanders (coordinato fin nell’impugnatura della spada), con una lunghissima fusciacca che faceva pensare a una toga. Quando i damerini ritornavano in Inghilterra continuavano la fiera delle vanità e a darsi le arie come avanguardisti del dandysmo, la cui esistenza consisteva nell’indossare abiti (Carlyle) con l’irremovibile determinazione a non essere coinvolti (Baudelaire).
Nel 1841 l’inglese Thomas Cook fondò una ditta destinata a un grande avvenire: i viaggi di gruppo. Cook era contro l’alcolismo e pensava che portare le persone lontano da casa favorisse l’astinenza, tanto più se andavano nei luoghi santi come l’Egitto di Mosè, la Palestina di Gesù e la Roma cristiana. Era animato sia dall’etica protestante che dallo spirito del capitalismo e la Thomas Cook & son’s andava a gonfie vele. Cook inventò anche la foto di
| In alto: «Goethe nella campagna romana», di Wilhelm Tischbein. 1787; a sinistra la copertina di «Harper’s Bazaar» del 1962 sul Monte Nemrut in Turchia; accanto, il Colonnello Gordon ritratto da Pompeo Batoni (1765)
gruppo: i borghesi vittoriani si arrampicavano sulle piramidi, stazionavano davanti ai templi di Luxor o sedevano bellamente all’hotel Old Cataract di Assuan per una foto ricordo, accanto ai nativi che assicuravano il tocco di colore. I dagherrotipi hanno immortalato quei signori nei loro inflessibili e abbottonati capi alla moda. Gli uomini vestivano la divisa coloniale con i caschi usati per ripararsi dal sole dell’impero, giacca, cravatta, pantaloni a sbuffo e stivali (spesso anche con un fucile) oppure una tenuta civile più conformista. Le signore non rinunciavano alla crinolina e a tutta la gamma di cappelli da passeggio popolati da flora e fauna (al posto dell’arma, impugnano l’ombrellino).
Negli anni ’30 andando a scavare in Siria con il marito archeologo Max Mallowan, Agatha Christie organizzò il bagaglio eliminando i capi gualciti, sformati e cadenti e comprando confezioni più adatte alle mogli dei Costruttori dell’Impero. Gli archeologi erano eleganti, a volte un po’ stropicciati dal caldo. Sir Arthur Evans, scopritore del palazzo di Cnosso e fondatore della civiltà minoica, fu ritratto nel 1907 in mezzo ai suoi reperti con lo sguardo verso l’orizzonte e un impeccabile completo bianco con fiore lilla all’occhiello. Un altro Sir, Leonard Wolley, appariva come un gentiluomo di campagna: negli anni ’10 era insieme a Lawrence d’Arabia (non ancora travestito da beduino) negli scavi di Karkemish in Turchia e si faceva fotografare in tweed e fedora o con una casacca scura bordata di bianco.
Tra gli archeologi del ’900 la palma dello chic va a Katherine Wolley, la moglie di Wolley. Aveva cominciato a collaborare come volontaria negli scavi di Leonard a Ur, la patria di Abramo in Iraq. Dopo tre anni lo aveva sposato per interesse, per far tacere le chiacchiere (era l’unica donna dell’équipe) e rimanere sugli scavi come moglie del direttore. Era una donna di temperamento: per Mallowan avere a che fare con lei era come camminare su una corda, Gertrude Bell la giudicava pericolosa, Agatha Christie la trovava straordinaria, ne fece un personaggio di Murder in Mesopotamia e la uccise. Katherine e Leonard furono fotografati nel 1928 mentre scavano seduti schiena contro schiena, lei su un cuscino bianco e lui con un metro e un calepino, sembrano Katherine Hepburn e Spencer Tracy. Katherine è vestita di chiaro alla garçonne, pantaloni alla zuava, blusa e cappello a cloche. Al giorno d’oggi si incontrano di rado individui abbigliati con stile tra i resti archeologici, la divisa dei turisti consiste in panni smessi e capi tecnologici per imprese sportive, gli archeologi si mettono quel che capita. I ritratti non sono più affidati a pittori e fotografi, sostituiti da un bastone e dal telefonino fai-da-te. Per la moda si scelgono più volentieri le rovine industriali, anche se Gucci ha tentato di ripristinare il vecchio costume contro la sacrosanctitas dell’Acropoli di Atene (come una sfilata al Santo Sepolcro).
Vecchi ruderi e nuovi abiti esprimono idee contrarie nei ritratti dei nobili, nelle fotografie dei turisti middle class, di modelle e anche di archeologi al lavoro (forse incoscienti dell’ossimoro). I vestiti alla moda sono moderni, un termine ( modernus) creato nel V secolo d.C. dal papa Gelasio I con il significato di presente, contemporaneo, di questo momento, in opposizione ad antiquus.
Giacomo Leopardi offre una chiave per aprire la corrispondenza tra ruderi e moda (certamente deve aver incrociato qualche esclusivo visitatore in giro per Roma e Pompei). Nel Dialogo della Moda e della Morte (1824) Moda e Morte sono sorelle, figlie di Caducità. Il loro compito è disfare e rimutare di continuo le cose di quaggiù. La Morte semina ossami e pelverumi (per i) molti che si erano vantati di essersi fatti immortali, la Moda in contrasto ha levato l’usanza di cercare l’immortalità. Con Leopardi tutti d’accordo: la principessa Bibesco pensava che la moda fosse necessaria più di ogni altra cosa perché conferisce un potere nuovo, quello di ricreare la vita; per Walter Benjamin la moda non è altro che l’eterno ritorno del nuovo e per Roland Barthes la moda ... diritto naturale del presente sul passato.