Contro la stagnazione cuneo fiscale e investimenti
Gli «ottimisti della volontà» leggono il calo drammatico della produttività del lavoro del 2016 (-1,2%) come l’altra faccia dell’aumento di occupazione legato in parte agli effetti del Jobs act. In sostanza la tesi è questa: si fanno le stesse cose con più persone. Difficile scegliere se sia maggiore il tasso di consolazione o di rozzezza di questa conclusione. Anche perché non risolve il grande dilemma italiano di una produttività del lavoro stagnante o calante dal 2000-2001 e di una produttività totale di fattori preda di una glaciazione, unica in Europa, fin dal 1995-96.
Il caso tedesco dimostra che occupazione e produttività non sono grandezze inversamente proporzionali: in Germania la produttività del lavoro è cresciuta in media dell’1,6% annuo - espressa in valore aggiunto per ora lavorata - e nel contempo è aumentata anche l’occupazione, che ha sfondato quota 44 milioni di lavoratori attivi con un tasso di disoccupazione al 3,9% (era superiore all’11% nel 2005).
La produttività del lavoro è quindi un indicatore più complesso che incorpora l’impatto dell’innovazione tecnologica, la qualità del capitale umano, la rilevanza delle regole contrattuali e delle relazioni industriali. La produttività totale dei fattori poi (che contempla lavoro e capitale) allarga la fotografia di un’Italia stagnante e aggiunge altri punti dolenti come il peso del fisco sull’economia, il tasso di concorrenza, la pervasività della burocrazia, l’efficienza della giustizia, il livello degli investimenti pubblici e privati, la velocità dei processi decisionali della politica e dell’amministrazione, il sostegno alla ricerca e più genericamente al sapere.
Se la produttività diventa priorità nell’agenda di un Paese lo costringe, in sostanza, a misurare quale sia il suo effettivo indice di riformismo. E per l’Italia l’esito dell'autoanalisi non può che indurre a recuperare in fretta il tempo e le risorse perse finora. Un esempio per tutti: gli investimenti della pubblica amministrazione sono calati nel 2016 del 4,5% e in generale la spesa in conto capitale è tracollata a -16%. Nel Def fresco d’inchiostro si dice che nel prossimo triennio gli investimenti in percentuale del Pil non cambieranno e resteranno intorno al 2%; nello stesso testo è scritto anche che aumenteranno, in termini di risorse, del 2,8% nel 2017 e del 6,5% nel 2018.
Èauspicabile che non siano dati in contraddizione tra loro. Sarà comunque decisiva la qualità degli interventi e la velocità nel trasformare gli annunci in cantieri: primo test il cospicuo (sulla carta) piano le infrastrutture da 47,5 miliardi dal 2017 al 2032 che ha avuto pochi giorni fa il primo via libera politico. Per quest'anno si tratta di 1,9 miliardi che attendono un Dpcm imminente. Tutto fa produttività: anche questa goccia nel mare
Finora gli investimenti privati hanno compensato le carenze pubbliche e lo stesso Def segnala che <risultano la variabile più dinamica, spinti dalla ripresa dell'export, dalle condizioni finanziarie favorevoli e dagli incentivi di natura fiscale>. Naturalmente è fondamentale la svolta impressa dal programma Industria 4.0 con iper e superammortamenti per favorire l'upgrading tecnologico delle imprese.
Ora sarebbe importante che il Parlamento superasse l'impasse sul ddl concorrenza, affidato alla navigazione parlamentare ormai da due anni. Gli interessi in gioco variano dalle assicurazioni ai fondi pensione, dalle comunicazioni alle farmacie, dai taxisti ai servizi postali, dalla distribuzione del carburante all'energia. Se guardato con le lenti della produttività il ddl dovrebbe prendere atto, ad esempio, che la produttività del lavoro è aumentata nel settore della manifattura e in agricoltura (anche durante la recessione) e nei servizi è tornata ai livelli del '96 oltre ad essere crollata nei servizi pubblici e nelle attività professionali. Forse una ragione è proprio nell'apparente irriformabilità di quei settori, protetti da economie poco o nulla concorrenziali.
La produttività del lavoro non può non rimandare a tema del cuneo fiscale che per l'Italia è 12 punti in più della media Ocse, dove l'Italia occupa un non invidiabile quinto posto con il 47,8% a misurare la distanza tra la retribuzione netta del lavoratore e il costo del lavoro pagato dall'impresa. La zavorra fiscale impedisce la migliore allocazione del lavoro potenziale e crea una “concorrenza” impropria tra lavoro umano e automazione.
Il Def pone tra le priorità della prossima manovra d'autunno una riduzione graduale del cuneo fiscale anche se la formulazione risulta ancora cauta e limitata a platee circoscritte. Obiettivo è favorire l'occupazione dei giovani, ma serviranno risorse naturalmente. E soprattutto sarà necessario passare da una fase di continue incentivazioni spot a una scelta finalmente strutturale.
La produttività è anche il nuovo orizzonte delle relazioni industriali che, con più incisività che in passato, hanno creato gli spazi contrattuali per la gestione di aumenti ancorati a questa variabile. Le parti sociali hanno fatto già molto per rendere il più “accoglienti” possibile i contratti di secondo livello per la distribuzione proprio degli aumenti di produttività. Ora tocca al Governo ridurre il cuneo, liberare risorse destinabili a lavoratori e imprese e incentivando il salario di secondo livello. La stessa Bce ha più volte sollecitato un aumento delle retribuzioni per dare nerbo a un'inflazione “sana”. Il salario di produttività è la via principale per allargare la torta delle risorse e può diventare lo specchio di un Paese che ha saputo ritrovare il coraggio di una modernizzazione fatta anche di consenso sociale.