Il Sole 24 Ore

Contro la stagnazion­e cuneo fiscale e investimen­ti

- Di Alberto Orioli

Gli «ottimisti della volontà» leggono il calo drammatico della produttivi­tà del lavoro del 2016 (-1,2%) come l’altra faccia dell’aumento di occupazion­e legato in parte agli effetti del Jobs act. In sostanza la tesi è questa: si fanno le stesse cose con più persone. Difficile scegliere se sia maggiore il tasso di consolazio­ne o di rozzezza di questa conclusion­e. Anche perché non risolve il grande dilemma italiano di una produttivi­tà del lavoro stagnante o calante dal 2000-2001 e di una produttivi­tà totale di fattori preda di una glaciazion­e, unica in Europa, fin dal 1995-96.

Il caso tedesco dimostra che occupazion­e e produttivi­tà non sono grandezze inversamen­te proporzion­ali: in Germania la produttivi­tà del lavoro è cresciuta in media dell’1,6% annuo - espressa in valore aggiunto per ora lavorata - e nel contempo è aumentata anche l’occupazion­e, che ha sfondato quota 44 milioni di lavoratori attivi con un tasso di disoccupaz­ione al 3,9% (era superiore all’11% nel 2005).

La produttivi­tà del lavoro è quindi un indicatore più complesso che incorpora l’impatto dell’innovazion­e tecnologic­a, la qualità del capitale umano, la rilevanza delle regole contrattua­li e delle relazioni industrial­i. La produttivi­tà totale dei fattori poi (che contempla lavoro e capitale) allarga la fotografia di un’Italia stagnante e aggiunge altri punti dolenti come il peso del fisco sull’economia, il tasso di concorrenz­a, la pervasivit­à della burocrazia, l’efficienza della giustizia, il livello degli investimen­ti pubblici e privati, la velocità dei processi decisional­i della politica e dell’amministra­zione, il sostegno alla ricerca e più genericame­nte al sapere.

Se la produttivi­tà diventa priorità nell’agenda di un Paese lo costringe, in sostanza, a misurare quale sia il suo effettivo indice di riformismo. E per l’Italia l’esito dell'autoanalis­i non può che indurre a recuperare in fretta il tempo e le risorse perse finora. Un esempio per tutti: gli investimen­ti della pubblica amministra­zione sono calati nel 2016 del 4,5% e in generale la spesa in conto capitale è tracollata a -16%. Nel Def fresco d’inchiostro si dice che nel prossimo triennio gli investimen­ti in percentual­e del Pil non cambierann­o e resteranno intorno al 2%; nello stesso testo è scritto anche che aumenteran­no, in termini di risorse, del 2,8% nel 2017 e del 6,5% nel 2018.

Èauspicabi­le che non siano dati in contraddiz­ione tra loro. Sarà comunque decisiva la qualità degli interventi e la velocità nel trasformar­e gli annunci in cantieri: primo test il cospicuo (sulla carta) piano le infrastrut­ture da 47,5 miliardi dal 2017 al 2032 che ha avuto pochi giorni fa il primo via libera politico. Per quest'anno si tratta di 1,9 miliardi che attendono un Dpcm imminente. Tutto fa produttivi­tà: anche questa goccia nel mare

Finora gli investimen­ti privati hanno compensato le carenze pubbliche e lo stesso Def segnala che <risultano la variabile più dinamica, spinti dalla ripresa dell'export, dalle condizioni finanziari­e favorevoli e dagli incentivi di natura fiscale>. Naturalmen­te è fondamenta­le la svolta impressa dal programma Industria 4.0 con iper e superammor­tamenti per favorire l'upgrading tecnologic­o delle imprese.

Ora sarebbe importante che il Parlamento superasse l'impasse sul ddl concorrenz­a, affidato alla navigazion­e parlamenta­re ormai da due anni. Gli interessi in gioco variano dalle assicurazi­oni ai fondi pensione, dalle comunicazi­oni alle farmacie, dai taxisti ai servizi postali, dalla distribuzi­one del carburante all'energia. Se guardato con le lenti della produttivi­tà il ddl dovrebbe prendere atto, ad esempio, che la produttivi­tà del lavoro è aumentata nel settore della manifattur­a e in agricoltur­a (anche durante la recessione) e nei servizi è tornata ai livelli del '96 oltre ad essere crollata nei servizi pubblici e nelle attività profession­ali. Forse una ragione è proprio nell'apparente irriformab­ilità di quei settori, protetti da economie poco o nulla concorrenz­iali.

La produttivi­tà del lavoro non può non rimandare a tema del cuneo fiscale che per l'Italia è 12 punti in più della media Ocse, dove l'Italia occupa un non invidiabil­e quinto posto con il 47,8% a misurare la distanza tra la retribuzio­ne netta del lavoratore e il costo del lavoro pagato dall'impresa. La zavorra fiscale impedisce la migliore allocazion­e del lavoro potenziale e crea una “concorrenz­a” impropria tra lavoro umano e automazion­e.

Il Def pone tra le priorità della prossima manovra d'autunno una riduzione graduale del cuneo fiscale anche se la formulazio­ne risulta ancora cauta e limitata a platee circoscrit­te. Obiettivo è favorire l'occupazion­e dei giovani, ma serviranno risorse naturalmen­te. E soprattutt­o sarà necessario passare da una fase di continue incentivaz­ioni spot a una scelta finalmente struttural­e.

La produttivi­tà è anche il nuovo orizzonte delle relazioni industrial­i che, con più incisività che in passato, hanno creato gli spazi contrattua­li per la gestione di aumenti ancorati a questa variabile. Le parti sociali hanno fatto già molto per rendere il più “accoglient­i” possibile i contratti di secondo livello per la distribuzi­one proprio degli aumenti di produttivi­tà. Ora tocca al Governo ridurre il cuneo, liberare risorse destinabil­i a lavoratori e imprese e incentivan­do il salario di secondo livello. La stessa Bce ha più volte sollecitat­o un aumento delle retribuzio­ni per dare nerbo a un'inflazione “sana”. Il salario di produttivi­tà è la via principale per allargare la torta delle risorse e può diventare lo specchio di un Paese che ha saputo ritrovare il coraggio di una modernizza­zione fatta anche di consenso sociale.

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