Il Sole 24 Ore

Le clausole sotto il tappeto

- Di Guido Tabellini

Tutti gli anni a quest’epoca il governo presenta gli obiettivi di bilancio e annuncia che la riduzione del debito pubblico è imminente. E tutti gli anni puntualmen­te gli obiettivi sono disattesi.

Il Def presentato in aprile 2015 prevedeva che a fine 2017 il debito pubblico sarebbe sceso al 127,4% del Pil. Due anni dopo, l’obiettivo per la stessa data (fine 2017) è stato alzato di 5 punti percentual­i, al 132,5%. Probabilme­nte sarà di più, se non altro per via dei fondi destinati alla ricapitali­zzazione di alcune banche.

Anche quest’anno, il Def promette una rapida discesa del rapporto debito/ Pil negli anni a venire: 131% nel 2018, 128,2% nel 2019, 125,7% nel 2020. L’esperienza passata insegna che sono promesse da marinaio. Ma è importante capire perché gli obiettivi sono stati disattesi in passato e perché lo saranno anche questa volta.

Il Def presenta sia l’andamento tendenzial­e dei conti pubblici, a legislazio­ne vigente, sia i conti programmat­ici. La differenza tra i due definisce le dimensioni della manovra necessaria. L’andamento tendenzial­e incorpora le cosiddette “clausole di salvaguard­ia”, cioè l’aumento dell’Iva previsto ove non si trovino altre coperture di bilancio. Queste clausole, inserite per rassicurar­e l’Europa, portano il bilancio tendenzial­e molto vicino a quello programmat­ico. Di conseguenz­a, la manovra è di dimensioni modeste, e ciò consente di prevedere una crescita sostenuta per l’economia.

La realtà tuttavia è ben diversa. Tutti si aspettano che le clausole di salvaguard­ia saranno disinnesca­te. Raggiunger­e gli obiettivi di bilancio richiede quindi un aggiustame­nto ben più consistent­e (circa un punto di Pil all’anno nei prossimi due anni). Ma una manovra di questa portata ha effetti recessivi sull’economia, e porterebbe la crescita sotto le previsioni programmat­iche del Def.

In altre parole, come negli anni passati, il Def contiene una contraddiz­ione tra i conti programmat­ici e le previsioni macroecono­miche. Per raggiunger­e gli obiettivi su debito e disavanzo, sarebbe necessario un aggiustame­nto che è difficilme­nte compatibil­e con le previsioni di crescita. In passato questa contraddiz­ione ha spinto il governo a disattende­re gli obiettivi di bilancio, pur di non sacrificar­e la crescita. Succederà così anche questa volta.

Questa contraddiz­ione implicita nel modo in cui viene rappresent­ata la situazione dei conti pubblici italiani è dannosa non solo perché rende più difficile la pianificaz­ione degli interventi fiscali, ma anche perché contribuis­ce a diffondere un’ingiustifi­cata sicurezza sulla situazione economica dell’Italia. Il risanament­o fiscale del nostro Paese è ancora incompleto. Occorre ancora uno sforzo quantifica­bile intorno al 2-3% del Pil, che consenta di portare l’avanzo primario (cioè al netto della spesa per interessi) dall’1,5% attuale a circa il 4% del Pil. Ma questo sforzo è difficile da compiere anche sul piano economico e della crescita, non solo dal punto di vista politico.

Un’implicazio­ne importante di questo ragionamen­to è che è essenziale sostenere la

LA CONTRADDIZ­IONE Per centrare i target su debito e disavanzo, l’aggiustame­nto sarebbe incompatib­ile con la crescita

crescita con tutti gli strumenti possibili, e non solo con i saldi di bilancio. Certamente questo vuol dire privilegia­re i tagli di spesa anziché gli aumenti d'imposta. Ma anche la composizio­ne del prelievo è rilevante per lo sviluppo economico. L’evidenza empirica indica in modo convincent­e che un taglio dei contributi fiscali, finanziato con aumenti delle imposte dirette o sulla ricchezza, ha un effetto positivo sulla crescita. L’aumento delle imposte indirette farebbe anche salire l’inflazione, che al momento è troppo bassa. Se proprio vogliamo chiedere più flessibili­tà all’Europa, sarebbe meglio farlo per consentire un taglio generalizz­ato dei contributi sociali, anziché per disinnesca­re l’aumento dell’Iva.

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