Il Sole 24 Ore

Scontro elettorale permanente senza una forma partito definita

- Paolo Pombeni

Davanti all’implodere della forma partito che è stata dominante in questo paese, qualcuno ricorderà forse i dibattiti sulle differenze fra il modello europeo e quello americano. Il primo saldamente strutturat­o come istituzion­e, dove dominavano i quadri e i vertici delle strutture. Il secondo ridotto a semplice macchina elettorale, da cui, oltre tutto, non traevano profitto i “funzionari” del partito, perché il sistema serviva solo per estrarre delle personalit­à dalle profession­i e dai ruoli sociali dirigenti.

Il modello di partito nell’Italia d’oggi non è piattament­e “americano”, ma certo non è più quello dei tempi andati. Si dirà che il fenomeno era già stato avviato col mitico “partito di plastica” del primo Berlusconi, ma oggi la situazione ha già fatto passi avanti. Assistiamo infatti ad un mix fra macchina elettorale e servizio alle leadership. È da qui che origina quel clima di campagna elettorale permanente e onnicompre­nsiva che costituisc­e il problema principale, anche perché si tratta di scontri che non prevedono un vincitore, ma una pluralità di capi che affermeran­no il loro diritto a sedere al tavolo dove si decidono gli equilibri politici della legislatur­a.

Naturalmen­te non è tutto così semplice, perché non si tiene conto di un contesto che condiziona queste ambizioni. Il primo punto è che un partito è comunque una forma associativ­a i cui membri possono vantare diritti sulla base del patto che li ha legati. Se ne è accorto Beppe Grillo che credeva di aver evitato il tema con invenzioni verbali come “non partito” e “non statuto”, ma che ha dovuto constatare che una associazio­ne non si può reggere sul motto de “il partito sono io”. È vero che nella nostra Costituzio­ne non si riuscì a promuovere una istituzion­alizzazion­e specifica per i partiti, perché il Pci la bloccò temendo molto il rinvio ad una clausola sull’adeguament­o necessario al sistema democratic­o, il che avrebbe dato modo ad autorità “esterne” di ficcare il naso in casa sua. È altrettant­o vero che comunque è impossibil­e evitare il confronto con le normali garanzie che agli associati garantisce la legislazio­ne.

Se questo potrebbe essere considerat­o il caso estremo di un “non partito” che si risveglia condiziona­to da quelle istanze di democrazia diretta che ha allegramen­te messo in campo, c’è da riflettere sulla crisi di quello che è rimasto l’ultimo superstite delle antiche modalità organizzat­ive dei partiti storici, cioè il Pd. Qui il fenomeno da tenere sotto osservazio­ne è il livello di “pubblicità” che ha raggiunto lo scontro fra dirigenti. In sé non è una novità, quel che colpisce è la ferocia della delegittim­azione fra le forze concorrent­i, per cui nessuno si preoccupa più del fatto che contrastar­e l’avversario dovrebbe avere il limite di non mettere in gioco la tenuta dell’istituzion­e nel suo complesso. Qualcosa di difficile da realizzare quando ci si accusa reciprocam­ente di portare il partito alla rovina e quando una parte decide di andarsene incurante del fatto che così

LA STRADA DEL MOVIMENTO Grillo prova a risolvere il tema con la formula del non-partito ma deve fare i conti con obblighi associativ­i

lascia la vittoria in mano agli avversari.

E il famoso partito di plastica berlusconi­ano? Anche quello è finito in soffitta nel momento in cui il suo fondatore e leader ha deciso di puntare tutto sulla sua “immagine”. Non è stato così in origine, quando l’immagine era funzionale ad un messaggio politico (l’imprendito­re fattosi da sé che prometteva lo stesso successo al suo paese), mentre ora l’immagine diventa tutto, perché difficilme­nte Berlusconi che somministr­a il biberon all’agnello può essere considerat­o un messaggio politico (al massimo è un appello ai buoni sentimenti).

Insomma della tradiziona­le forma partito non sopravvive quasi nulla. Non sarebbe un disastro se quei servizi istituzion­ali che essa garantiva venissero gestiti da altri. Se non è così e di conseguenz­a le elezioni sono una via di mezza fra un “like”, un televoto, una pronuncia da tifoseria, come paese non siamo messi molto bene.

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