Raddoppio termini, non basta il sospetto
Esito dell’azione penale irrilevante
È legittimo il raddoppio dei termini se il pubblico ufficiale rileva l’ipotesi di un
reato: a tal fine non è sufficiente il mero sospetto di un’attività illecita, poiché è necessaria la sussistenza di elementi di un delitto. In ogni
caso, poi, è irrilevante l’esito dell’azione penale eventualmente avviata.
A confermare questi principi è la Corte di cassazione con la sentenza n.. 9670 depositata ieri.
A un curatore fallimentare di una società veniva notificato un avviso di accertamento per il recupero dell’Iva detratta dall’ente perché ritenuta relativa ad operazioni non realmente avvenute.
Il provvedimento era impugnato senza successo per entrambi i gradi di merito e quindi avverso la decisione di appello era proposto ricorso in Cassazione.
Tra le diverse doglianze, il curatore lamentava anche che il provvedimento fosse stato emesso beneficiando del raddoppio dei termini senza l’inoltro della notizia di reato all’autorità giudiziaria.
La Suprema Corte, confermando sul punto la decisione di merito, ha i nnanzitutto riepilogato i principi sinora affermati in tema di raddoppio dei termini.
Il citato raddoppio non è un nuovo termine di decadenza poiché rappresenta il «termine ordinario» in presenza dell’obbligo di inoltrare la notizia di reato (Corte costituzionale, sentenza 247/2011).
Affinché operi il raddoppio, quindi, è necessario il mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia indipendentemente dall’effettiva presentazione della stessa (Cassazione, sentenza 1171/2016), restando per di più irrilevante che l’azione penale non venga proseguita o sia intervenuta una decisione di proscioglimento, di assoluzione o di condanna.
L’obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal Dlgs 74/2000 e ciò anche se sussi- stano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini. È tuttavia stato precisato che in tale contesto non è sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita.
Su richiesta del contribuente, poi, il giudice tributario è tenuto a controllare la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo una valutazione ora per allora – la cosiddetta prognosi postuma – circa la loro ricorrenza. Occorre cioè che l’amministrazione abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine per accertare. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente è sufficiente che l’Ufficio provi i presupposti dell’obbligo di denuncia e non
L’INDICAZIONE Non è sufficiente il mero sospetto di un’attività illecita ma occorrono «dati» più significativi
l’esistenza del reato.
I giudici di legittimità hanno poi precisato che le norme intervenute successivamente in tema di raddoppio non inficiano l’applicabilità dei predetti principi. In particolare è stato inizialmente previsto che si potessero applicare solo se la notizia di reato fosse stata inoltrata prima della decadenza del “termine breve”. È stato poi completamente eliminato il raddoppio, prevedendo solo maggiori termini del potere di accertamento.
Alla luce di questi principi, la Corte di cassazione ha così valutato l’accertamento impugnato dalla curatela e ha rilevato che nella specie l’agenzia delle Entrate aveva indicato le ragioni per le quali riteneva sussistente un’ipotesi di reato. Ne conseguiva pertanto che legittimamente erano stati utilizzati i più ampi termini previsti dalla norma.