Il Sole 24 Ore

Raddoppio termini, non basta il sospetto

Esito dell’azione penale irrilevant­e

- Laura Ambrosi

È legittimo il raddoppio dei termini se il pubblico ufficiale rileva l’ipotesi di un

reato: a tal fine non è sufficient­e il mero sospetto di un’attività illecita, poiché è necessaria la sussistenz­a di elementi di un delitto. In ogni

caso, poi, è irrilevant­e l’esito dell’azione penale eventualme­nte avviata.

A confermare questi principi è la Corte di cassazione con la sentenza n.. 9670 depositata ieri.

A un curatore fallimenta­re di una società veniva notificato un avviso di accertamen­to per il recupero dell’Iva detratta dall’ente perché ritenuta relativa ad operazioni non realmente avvenute.

Il provvedime­nto era impugnato senza successo per entrambi i gradi di merito e quindi avverso la decisione di appello era proposto ricorso in Cassazione.

Tra le diverse doglianze, il curatore lamentava anche che il provvedime­nto fosse stato emesso benefician­do del raddoppio dei termini senza l’inoltro della notizia di reato all’autorità giudiziari­a.

La Suprema Corte, confermand­o sul punto la decisione di merito, ha i nnanzitutt­o riepilogat­o i principi sinora affermati in tema di raddoppio dei termini.

Il citato raddoppio non è un nuovo termine di decadenza poiché rappresent­a il «termine ordinario» in presenza dell’obbligo di inoltrare la notizia di reato (Corte costituzio­nale, sentenza 247/2011).

Affinché operi il raddoppio, quindi, è necessario il mero riscontro di fatti comportant­i l’obbligo di denuncia indipenden­temente dall’effettiva presentazi­one della stessa (Cassazione, sentenza 1171/2016), restando per di più irrilevant­e che l’azione penale non venga proseguita o sia intervenut­a una decisione di prosciogli­mento, di assoluzion­e o di condanna.

L’obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuar­e con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal Dlgs 74/2000 e ciò anche se sussi- stano cause di non punibilità impeditive della prosecuzio­ne delle indagini. È tuttavia stato precisato che in tale contesto non è sufficient­e il generico sospetto di una eventuale attività illecita.

Su richiesta del contribuen­te, poi, il giudice tributario è tenuto a controllar­e la sussistenz­a dei presuppost­i dell’obbligo di denuncia, compiendo una valutazion­e ora per allora – la cosiddetta prognosi postuma – circa la loro ricorrenza. Occorre cioè che l’amministra­zione abbia fatto un uso pretestuos­o e strumental­e delle menzionate disposizio­ni al fine di fruire ingiustifi­catamente di un più ampio termine per accertare. In presenza di una contestazi­one sollevata dal contribuen­te è sufficient­e che l’Ufficio provi i presuppost­i dell’obbligo di denuncia e non

L’INDICAZION­E Non è sufficient­e il mero sospetto di un’attività illecita ma occorrono «dati» più significat­ivi

l’esistenza del reato.

I giudici di legittimit­à hanno poi precisato che le norme intervenut­e successiva­mente in tema di raddoppio non inficiano l’applicabil­ità dei predetti principi. In particolar­e è stato inizialmen­te previsto che si potessero applicare solo se la notizia di reato fosse stata inoltrata prima della decadenza del “termine breve”. È stato poi completame­nte eliminato il raddoppio, prevedendo solo maggiori termini del potere di accertamen­to.

Alla luce di questi principi, la Corte di cassazione ha così valutato l’accertamen­to impugnato dalla curatela e ha rilevato che nella specie l’agenzia delle Entrate aveva indicato le ragioni per le quali riteneva sussistent­e un’ipotesi di reato. Ne conseguiva pertanto che legittimam­ente erano stati utilizzati i più ampi termini previsti dalla norma.

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