Una Pasqua di non rassegnazione
Il susseguirsi di attentati di questi ultimi giorni toglie il fiato, ma la speranza di fermare le stragi non muore
Stoccolma è ancora sotto shock e le comunità cristiane di Tanta e di Alessandria di Egitto – ma non sono le sole – continuano a piangere le vittime di due attentati e si chiedono perché non debba esserci posto per loro e per le loro espressioni di fede in una terra che è nata e si è sviluppata con loro e con i loro padri. Si chiedono a chi dia fastidio, fino a decretarne lo sterminio, una comunità che ha sempre dato un contributo le- ale e decisivo per la vita e lo sviluppo di una terra straordinariamente ricca di cultura e di espressioni autenticamente religiose. In tre anni la comunità copta in Egitto ha subito 40 attacchi. Esattamente un anno fa, un furioso incendio, per fortuna senza vittime, è scoppiato nella chiesa cattolica copta di Mar-Girgis a Luxor. E in questi giorni, ancora vittime, ancora violenza e ancora rivendicazioni tracotanti e demenziali.
Lo scorso anno, in prossimità della Pasqua, su queste stesse pagine mi sono ritrovato a pormi domande e a cercare motivi per sperare. Domande non molto lontane da quelle che sento ancora forti e che mi pongo ancora oggi. Un anno fa le domande sorgevano davanti alle vite spezzate dei giovani dell’Erasmus morti sulle strade di Tarragona e davanti al terrore seminato per le strade di Bruxelles. Oggi quelle stesse domande, e ancora una volta mentre celebriamo la Pasqua, me le pongo guardando i corpi straziati e il terrore negli occhi di chi, nel giorno delle Palme, era andato in Chiesa per pregare e per fare festa. «Chissà se la Pasqua può aiutarci?», mi chiedevo lo scorso anno. «Chissà se questa Pasqua può aiutarci?», mi chiedo ancora oggi.
Mi ripeto questa domanda perché celebrare la Pasqua è anche non rassegnarsi all’ineluttabilità di eventi drammatici, portatori di morte. Celebrare la Pasqua è nutrire la speranza certa che la violenza cieca che ha armato gli assassini di Stoccolma e quelli di Tanta e di Alessandria d’Egitto ha lo stesso peso del masso che fu rotolato all’imboccatura del sepolcro di Gesù. Un masso dal peso insopportabile. Fatti come quelli evocati ed esperienze negative che spesso segnano la nostra vita ci fanno dire che la vita di ognuno di noi e quella delle nostre realtà – per restare nell’ambito del simbolismo religioso - assomiglia sempre di più al dolore lancinante del Venerdì e al silenzio impotente del Sabato santo. In questo nostro mondo si fa sempre più fatica a riconoscere i segni luminosi e carichi di speranza della Pasqua. La violenza con la quale siamo costretti a fare i conti rende sempre più frequente l’esperienza della sofferenza, del dolore e del silenzio piuttosto che quella della gioia viva e coinvolgente della Pasqua.
Immagino questa Pasqua vissuta dai genitori che attendono ancora di conoscere le ragioni che li hanno costretti a vedersi consegnare un figlio martoriato mentre si era allontanato da casa solo per realizzare i suoi sogni fatti di studio intenso e di ricerca appassionata. Immagino la Pasqua dei tanti giovani per i quali è passato un altro anno senza che nulla si sia mosso in termini di prospettiva per la loro vita futura. Immagino la Pasqua dei giovani di qualche cooperativa delle nostre terre, stroncati nella loro speranza dall’arroganza della malavita o dall’abbraccio mortale della burocrazia.
Queste e storie simili a queste sanno più di Venerdì santo e di Sabato santo che di Pasqua per il carico di sofferenza che le caratterizza e di sordo silenzio che le attraversa. Fa bene allora sapere che, per chi crede, il Cristo che celebriamo crocifisso e risorto in questi giorni non gode della nostra sofferenza: dalla croce intende gridarci che il cristiano non teme la morte, teme piuttosto lo squallore della vita; il cristiano non teme la morte, teme piuttosto una vita priva di senso, colma soltanto di cose banali e di rivendicazioni a buon mercato. A Gesù, appeso alla croce, viene rivolto un invito/ sfida: «Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo». Gesù da quella croce non è sceso! E noi gli crediamo proprio perché ha scelto di non stupirci scendendo dalla croce. Gli crediamo perché è rimasto lì come tanti uomini e donne che non ce la fanno a lasciare la loro croce di sofferenza e di fatica di vivere. Gli crediamo perché è rimasto lì per dirci quanto lui condivida la nostra sofferenza.
Se le cose stanno così, perché celebrare la Pasqua senza camuffarla come “festa di primavera” o ricorrendo ad altre disinvolte banalità? Perché cantare l’Alleluja? Perché lo facciamo? Lo facciamo forse perché non crediamo al dolore lancinante dei genitori che hanno perso un figlio? Lo facciamo forse perché non riteniamo sufficientemente vera la disperazione di tanti uomini e donne impotenti o resi tali di fronte al loro futuro? No! Noi celebriamo la Pasqua per dire che la forza con la quale è stata rotolata via quella pietra “molto grande” dalla tomba di Cristo non si è esaurita! Celebrare la Pasqua vuol dire continuare
UNA STAGIONE DIFFICILE La violenza con la quale siamo costretti a fare i conti rende sempre più frequente l’esperienza della sofferenza piuttosto che quella della gioia
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