Nel braccio di ferro la Cina gioca il ruolo di “colomba”
Sarà stato difficile per il presidente Xi Jinping trattenere la stizza davanti alle immagini della parata militare del Giorno del Sole a Pyongyang con la “sorpresa” di nuovi missili balistici da mille chilometri di gittata. La sfilata è una brutta copia, per mezzi e potenza schierati, di quella di piazza Tienanmen, a Pechino, appena un anno e mezzo fa, a 70 anni dalla Seconda guerra mondiale, per celebrare la vittoria sugli invasori giapponesi e la contestuale rinascita cinese. Pechino aveva dato fondo a un arsenale ricostruito, ma quei soldati nordcoreani che ieri urlavano “ban-zai” (vita eterna), immortalano alla perfezione le armi spuntate del gigante cinese contro la pulce nordcoreana.
Se lo scopo delle due kermesse era (ed è) simile - lanciare un messaggio globale di potenza grazie al deterrente sprigionato dallo sfoggio delle armi – ben diverso è l’attuale contesto mondiale.
Oggi Xi Jinping, più forte tra le mura di casa, si ritrova a gestire, proprio dietro l’angolo e in un clima surriscaldato, l’imprevedibile Kim Jong-un, figlio trentenne del caro Kim Jong-il, con Fidel Castro l’unico leader straniero degno di essere omaggiato, alla morte, con visita di Stato direttamente in ambasciata, a Pechino.
Il presidente cinese, che è anche comandante delle Forze armate, non considera il giovane successore un interlocutore autorevole; la Corea del Nord, per la Cina, è una quinta di cartone che nasconde povertà e squallore, tenuta su con aiuti sottobanco, eppure la pulce ha il dito sul bottone del nucleare pronto a partire, stavolta in risposta alla nuova minaccia Usa. Una dotazione di testate infima rispetto ai gi- ganti Russia, Cina e Usa, ma che fa terribilmente paura. Soprattutto a Pechino.
Anche Kim si è accorto che Trump non è Obama. Così, adesso, Xi è stretto tra la scomoda pulce che gli tormenta i fianchi e il nuovo bellicoso presidente Trump il quale, nemmeno finita la cena al lume di candela a Mar-a-Lago, in Florida, aveva già spedito i suoi Tomahawk a bombardare la Siria, ora ha appena sganciato la madre di tutte le bombe non nucleari sull’Afghanistan, nel frattempo ha messo nel mirino proprio lui, Kim, chiedendo al vicino Xi un supporto incondizionato (o quasi). Due cacciatorpediniere con i soliti Tomahawk sarebbero già non lontani dalla Corea del Nord, la portaerei Carl Vinson da giorni fa rotta sulla Penisola, nell’area ci sono 60mila soldati americani, la metà in Giappone.
Ma l’arsenale di Xi resta dov’era, con i suoi 2milioni di uomini, i missili balistici “killer” delle portaerei, i DF-21D da 1.400 km di gittata, quelli intercontinentali DF-5B, i DF-31A, i DF-26 (i “Guam killer”, dal nome della base navale Usa del Pacifico), gli elicotteri, i bombardieri a lungo raggio, i caccia J-15 “gli squali volanti” che hanno sorvolato la piazza Tienanmen a chiusura della parata formando il numero 70. Un inutile bendiddio.
Perché a Xi tocca fare la colomba, «in un’eventuale guerra tra Nord Corea e Usa non ci possono essere vincitori», è stato il commento serafico del ministro degli Esteri Wang Yi. La Cina vuole (e deve) dialogare, supportata dai russi. Perfino l’annuncio della tv (Cctv) – blocco totale, da domani, dei voli Pechino- Pyongyang – è stato smorzato da Air China con l’aggiunta «non a tempo indeterminato».