I superpoteri del rais turco segnano lo spostamento ad Est
La lunga stagione della fiction della Turchia candidata all’Europa è all’ultima puntata. Con i superpoteri presidenziali Erdogan è entrato nella galleria dei raìs, collocandosi nell’arco del dispotismo orientale tra Putin e Assad: un paradosso per un Paese membro della Nato da 70 anni, che ha concesso la base di Incirlik per bombardare l’Isis solo in cambio di una guerra senza quartiere ai curdi e poi ha dovuto scendere a patti con Mosca e Teheran sulla Siria.
L’asse geopolitico della Turchia si è spostato a Est e non basterà qualche bombardamento americano in Siria per rimettere la bussola a Occidente, sempre che lo vogliano a Washington e nelle cancellerie europee.
Il voto non è stato regolare e con lo stato d’emergenza non poteva esserlo, dice al telefono da Ankara Tana de Zulueta, capo della missione degli osservatori Osce. Adesso vedremo l’Europa, con la solita ipocrisia, continuerà a tenere in piedi la finzione.
L’autocrate di solito viene preferito dagli occidentali perché garantisce stabilità: il vero interrogativo quindi è se Erdogan sarà capace di governare un Paese spaccato e con due guerre in corso, una interna che dura da 35 anni con i curdi dell’Anatolia, e un’altra in Siria alle porte di casa, cui si aggiunge il terrorismo del Pkk e quello dei jihadisti ispirati dal Califfato.
La sottovalutazione di questi elementi ha sbilanciato la posizione europea e Nato nei confronti della Turchia: hanno continuato a trattarla in questi anni come un Paese “normale”.
Ma la Turchia non lo è più dal 2011 quando sono cominciate le primavere arabe ed Erdogan, con l’appoggio degli Usa e delle ricche monarchie del Golfo, si è messo in testa di abbattere Assad facendo passare dai suoi confini i jihadisti e assumendo quel ruolo di retrovia che aveva il Pakistan nella guerra all’Urss dei mujaheddin afghani.
Per sei anni la politica estera turca ma anche quella interna è stata funzionale a un obiettivo al quale Ankara ha dovuto rinunciare con l’intervento della Russia nel 2015. Il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 è stato una svolta traumatica: a Erdogan è arrivata prima la solidarietà di Putin che quella di americani ed europei. Le epurazioni di massa e gli arresti seguiti al golpe erano anche un messaggio agli occidentali: non ci fidiamo e facciamo a modo nostro, esattamente quello che ha ripetuto Erdogan nel discorso dopo il voto. Immaginare che lo stretto margine con cui ha vinto il referendum gli possa far cambiare strada è un’illusione: lui preferisce annichilire l’opposizione che cooptarla. L’Unione resta il bersaglio preferito di Erdogan, il suo cavallo di battaglia, il drappo rosso da agitare davanti all’elettorato musulmano conservatore ma che sventola in faccia a un’intera nazione rifiutata dall’Europa. La sfida di Erdogan è iniziata subito, nel momento in cui nel discorso della vittoria referendaria, mutilata da una valanga di “no” nelle grandi città, ha annunciato la possibilità di un’altra consultazione per rimettere la pena di morte.
Dal punto di vista concreto la deriva turca dal continente europeo è cominciata da un pezzo, da quando la Germania e la Francia hanno chiuso la porta ad Ankara. Negli anni Duemila la Turchia era a grande maggioranza filo-europea, con un consenso che univa sia i conservatori religiosi che i laici: un capitale dilapidato difficile da recuperare se i turchi non otterranno la libera circolazione dei visti, obiettivo per cui sono pronti a risfoderare il ricatto di riaprire al rotta balcanica ai profughi. Ecco perché le cancellerie europee sono in fibrillazione. La Germania, con tre milioni di immigrati turchi e curdi, è preoccupata dalla possibilità di vedere le tensioni politiche tra campi contrapposti trasferite sul suo territorio. Anche per questo una posizione comune della Ue sulla Turchia non è semplice. La solidarietà europea è un’araba fenice. Il presidente turco detesta l’Europa ma allo stesso tempo non può farne a meno: quasi il 50% del commercio estero è con l’Unione, sono europei il 70% dei capitali stranieri, senza contare che le aziende turche sono altamente indebitate con le banche europee. Ma c’è di più, Erdogan non controlla soltanto la politica: attraverso il Fondo sovrano turco ha già messo le mani sulle società strategiche e gli appalti dei grandi lavori legano le aziende europee ad Ankara. A spese dell’opposizione, dei curdi e della democrazia , dopo i soliti proclami, gli europei scenderanno a compromessi con il nuovo raìs. Sarà sorprendente essere smentiti dai fatti.