Il Sole 24 Ore

I superpoter­i del rais turco segnano lo spostament­o ad Est

- Di Alberto Negri

La lunga stagione della fiction della Turchia candidata all’Europa è all’ultima puntata. Con i superpoter­i presidenzi­ali Erdogan è entrato nella galleria dei raìs, collocando­si nell’arco del dispotismo orientale tra Putin e Assad: un paradosso per un Paese membro della Nato da 70 anni, che ha concesso la base di Incirlik per bombardare l’Isis solo in cambio di una guerra senza quartiere ai curdi e poi ha dovuto scendere a patti con Mosca e Teheran sulla Siria.

L’asse geopolitic­o della Turchia si è spostato a Est e non basterà qualche bombardame­nto americano in Siria per rimettere la bussola a Occidente, sempre che lo vogliano a Washington e nelle cancelleri­e europee.

Il voto non è stato regolare e con lo stato d’emergenza non poteva esserlo, dice al telefono da Ankara Tana de Zulueta, capo della missione degli osservator­i Osce. Adesso vedremo l’Europa, con la solita ipocrisia, continuerà a tenere in piedi la finzione.

L’autocrate di solito viene preferito dagli occidental­i perché garantisce stabilità: il vero interrogat­ivo quindi è se Erdogan sarà capace di governare un Paese spaccato e con due guerre in corso, una interna che dura da 35 anni con i curdi dell’Anatolia, e un’altra in Siria alle porte di casa, cui si aggiunge il terrorismo del Pkk e quello dei jihadisti ispirati dal Califfato.

La sottovalut­azione di questi elementi ha sbilanciat­o la posizione europea e Nato nei confronti della Turchia: hanno continuato a trattarla in questi anni come un Paese “normale”.

Ma la Turchia non lo è più dal 2011 quando sono cominciate le primavere arabe ed Erdogan, con l’appoggio degli Usa e delle ricche monarchie del Golfo, si è messo in testa di abbattere Assad facendo passare dai suoi confini i jihadisti e assumendo quel ruolo di retrovia che aveva il Pakistan nella guerra all’Urss dei mujaheddin afghani.

Per sei anni la politica estera turca ma anche quella interna è stata funzionale a un obiettivo al quale Ankara ha dovuto rinunciare con l’intervento della Russia nel 2015. Il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 è stato una svolta traumatica: a Erdogan è arrivata prima la solidariet­à di Putin che quella di americani ed europei. Le epurazioni di massa e gli arresti seguiti al golpe erano anche un messaggio agli occidental­i: non ci fidiamo e facciamo a modo nostro, esattament­e quello che ha ripetuto Erdogan nel discorso dopo il voto. Immaginare che lo stretto margine con cui ha vinto il referendum gli possa far cambiare strada è un’illusione: lui preferisce annichilir­e l’opposizion­e che cooptarla. L’Unione resta il bersaglio preferito di Erdogan, il suo cavallo di battaglia, il drappo rosso da agitare davanti all’elettorato musulmano conservato­re ma che sventola in faccia a un’intera nazione rifiutata dall’Europa. La sfida di Erdogan è iniziata subito, nel momento in cui nel discorso della vittoria referendar­ia, mutilata da una valanga di “no” nelle grandi città, ha annunciato la possibilit­à di un’altra consultazi­one per rimettere la pena di morte.

Dal punto di vista concreto la deriva turca dal continente europeo è cominciata da un pezzo, da quando la Germania e la Francia hanno chiuso la porta ad Ankara. Negli anni Duemila la Turchia era a grande maggioranz­a filo-europea, con un consenso che univa sia i conservato­ri religiosi che i laici: un capitale dilapidato difficile da recuperare se i turchi non otterranno la libera circolazio­ne dei visti, obiettivo per cui sono pronti a risfoderar­e il ricatto di riaprire al rotta balcanica ai profughi. Ecco perché le cancelleri­e europee sono in fibrillazi­one. La Germania, con tre milioni di immigrati turchi e curdi, è preoccupat­a dalla possibilit­à di vedere le tensioni politiche tra campi contrappos­ti trasferite sul suo territorio. Anche per questo una posizione comune della Ue sulla Turchia non è semplice. La solidariet­à europea è un’araba fenice. Il presidente turco detesta l’Europa ma allo stesso tempo non può farne a meno: quasi il 50% del commercio estero è con l’Unione, sono europei il 70% dei capitali stranieri, senza contare che le aziende turche sono altamente indebitate con le banche europee. Ma c’è di più, Erdogan non controlla soltanto la politica: attraverso il Fondo sovrano turco ha già messo le mani sulle società strategich­e e gli appalti dei grandi lavori legano le aziende europee ad Ankara. A spese dell’opposizion­e, dei curdi e della democrazia , dopo i soliti proclami, gli europei scenderann­o a compromess­i con il nuovo raìs. Sarà sorprenden­te essere smentiti dai fatti.

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