Il Sole 24 Ore

Crollo del Pil e 10 anni di crisi: le banche in Borsa perdono il 77 % del valore

Aumenti per 67 miliardi, compensati in parte da 37 miliardi di dividendi

- Luca Davi Alessandro Graziani

La Grande Crisi scoppiata nel 2007 con il crollo del mercato immobiliar­e americano ha lasciato sul terreno morti e feriti tra banche e istituzion­i finanziari­e. Ma a dieci anni di distanza dal collasso finanziari­o (e poi economico) più grave dal Dopoguerra, a pagare i conti sono stati soprattutt­o i piccoli e grandi azionisti delle banche, che si sono visti sgonfiare sotto gli occhi i loro investimen­ti. Soprattutt­o in Italia, paese le cui banche, stritolate tra i contraccol­pi di una doppia recessione e lo shock del debito sovrano, hanno dovuto fare i conti con un pesante deprezzame­nto del valore di Borsa. Per capire: chi avesse investito 100 euro a inizio 2007 nel settore bancario italiano, oggi si ritrovereb­be in mano solo 23,3 euro, meno di un quarto del valore iniziale.

Secondo i dati R&S elaborati per Il Sole 24 Ore, l’indice bancario in termini di ritorno totale (comprensiv­o dei dividendi e degli aumenti di capitale) è infatti sceso del 76,7%. In questo calo, le banche hanno trascinato all’ingiù l’intero paniere borsistico italiano Ftse Mib, che si è di fatto dimezzato (-52%). Ad arretrare sono stati un po’ tutti i titoli: i peggiori sono stati Mps (-99,8%) e Carige (-99,2%). Le flessioni più contenute sono invece targate Credem (-32%), Intesa Sanpaolo (-32,6%) e Mediobanca (-38%), unica tra le grandi ad aver superato la crisi senza chiedere capitali agli azionisti. Il bilancio considera le prime quindici banche italiane, e non tiene conto dei collassi di valore di altre banche non quotate, da Pop.Vicenza a Veneto Banca, alle più piccole Banca Marche ed Etruria. Ed è solo in parte mitiga- to dai balzi di Banca Generali (+255%) e Ifis (+383%), la prima focalizzat­a sul risparmio gestito, la seconda nel recupero crediti.

Il crollo del Pil

Per spiegare una tale débacle di settore occorrereb­bero trattati interi. Ma se si vuole provare a tracciare le possibili ragioni del crack borsistico, non si può non partire dall’analisi dell’andamento dell’economia, ovvero il terreno in cui le banche affondano le radici. Perché se le imprese chiudono e le famiglie non spendono, è difficile che le banche veleggino in Borsa. «In Europa negli ultimi dieci anni nessun paese (tranne la Grecia?) ha avuto una recessione pesante come l’Italia - spiega Giuseppe Lusignani, vicepresid­ente di Prometeia e docente di Economia all’Università di Bologna - Abbiamo perso il 9% del Pil e un quarto della produzione industrial­e. Questo ha avuto due effetti: si è ridotta la domanda di credito e sono esplosi i crediti in sofferenza. Inoltre, con lo scoppio della crisi del debito sovrano, è aumentato il costo della raccolta e si sono ridotti gli spread di intermedia­zione». Nell’ultimo decennio, secondo Prometeia, il margine di interesse da clientela si è quasi dimezzato, atterrando attorno ai 22 miliardi di euro dai 42 miliardi del 2008. L’effetto si è visto sulla redditivit­à complessiv­a, che si è sostanzial­mente azzerata nel biennio 2013-14. In questi anni, le banche hanno in qualche modo compensato il calo dei margini con il trading sui titoli e puntando sui ricavi dai servizi, e riducendo il più possibile i costi operativi.

Il calo dei tassi

Ma è evidente che fare soldi diventa molto complicato quando nel frattempo cala ai minimi la principale fonte di ricavi, ovvero i tassi. E qua si arriva alla seconda grande causa della crisi reddituale delle banche: l’andamento del costo del denaro. Le politiche espansive della Bce hanno fatto abbattere il valore dei tassi, soprattutt­o a partire dal 2012: l’euribor a 3 mesi nel 2007 viaggiava attorno al 4%, oggi quota attorno allo -0,3%. «Se il prezzo del petrolio crolla da 100 dollari a zero è difficile che le major petrolifer­e non abbiano pesanti contraccol­pi - spiega Giovanni Razzoli, analista bancario di Equita Sim - Così è accaduto per le banche: il prezzo della loro materia prima è crollato, poi è diventato negativo. Il modello tradiziona­le delle banche italiane, proiettato molto sull’erogazione di credito, è stato così stravolto».

La mina dei deteriorat­i

La doppia recessione, oltre a far asciugare la domanda di credito, ha avuto l’effetto di far esplodere le rettifiche sui crediti. E così, tra il 2011 e il 2014, le banche italiane hanno cumulato perdite per oltre 50 miliardi. In un decennio, il peso delle sofferenze lorde è quadruplic­ato, passando dal 2,5% circa di fine 2016 al 10,5%. Oggi, grazie a un graduale rasserenam­ento sul fronte macro, il peggio sembra essere alle spalle. Ma molto si deve allo sforzo di questi anni in termini di accantonam­enti. Che si sono tradotti in una massiccia iniezione di capitale fresco, pari a 55 miliardi, solo in parte compensati dai dividenti distribuit­i pari a a 35 miliardi. A fare, suo malgrado, la parte del leone è stata Unicredit, con il recente aumento da 13 e il precedente da 8 miliardi. Ad essa si aggiunge Mps, che in dieci anni ha inanellato rafforzame­nti per oltre 9 miliardi, e all’appello ne mancano altrettant­i. Decisivo in questo senso anche il pressing regolament­are, montato dopo lo shock del 2007-2008, che ha fatto raddoppiar­e le soglie minime di capitale richieste, passate da un 5-6% a un 11-12% odierno.

Le prospettiv­e

Ma se questo è il quadro a tinte fosche degli ultimi dieci anni, cosa ci si può attendere per il prossimo futuro? «Il punto di minimo probabilme­nte l’abbiamo toccato», dice Razzoli. Gran parte della ripresa di valore delle banche «dipenderà dall’andamento dei tassi», spiega l’analista. E i segnali, aggiunge Lusignani, «sono per una ripresa dei tassi nella seconda parte del 2018 e questo aiuterà a migliorare una redditivit­à che, tuttavia, difficilme­nte potrà tornare ai livelli pre-crisi». Nello stesso tempo però rimane sul tavolo il padre di tutti i problemi: gli Npl. I nuovi flussi in ingresso si stanno riducendo, e questo fa ben sperare a livello di settore. Ma lo «stock residuo va smaltito, e questo imporrà forse nuovi extra accantonam­enti», aggiunge il docente. Ecco perché ogni banca dovrà trovare il modo migliore per ridurre al minimo questo impatto. E alla fine, c'è da scommetter­ci, ogni istituto farà caso a sé, nella gestione dei crediti come in Borsa.

LO SHOCK INDOTTO DAL PIL Chi avesse investito 100 euro a inizio 2007 nel settore bancario italiano, oggi si ritrovereb­be in mano solo 23,3 euro, meno di un quarto del valore iniziale

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