Il Sole 24 Ore

Se Trump fa pace con Pechino

- di Domenico Lombardiu

Sarà un messaggio rassicuran­te quello che il Fondo monetario internazio­nale e i ministri delle finanze dei suoi 189 Paesi membri lanceranno da Washington nei prossimi giorni. Dopo anni di revisioni al ribasso, il quadro congiuntur­ale dell’economia mondiale vede una crescita sospinta nelle varie regioni del mondo, con investimen­ti e commercio internazio­nale in ripresa, anche se continuano ad esserci Paesi, tra cui l’Italia, che presentano una situazione di maggiore difficoltà.

In realtà, le delegazion­i ministeria­li che raggiunger­anno Washington nei prossimi giorni lo faranno soprattutt­o per comprender­e e valutare le implicazio­ni delle politiche dell’amministra­zione Trump sull’agenda internazio­nale. Anche su questo fronte, i segnali provenient­i dalla amministra­zione Trump sul terreno delle relazioni economiche internazio­nali sono, al momento, relativame­nte distensivi. Nel rapporto semestrale che il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha appena trasmesso al Congresso, l’amministra­zione non ha identifica­to la Cina come manipolato­re del tasso di cambio, nonostante le ripetute minacce formulate dallo stesso presidente a più riprese. L’esito del tanto atteso rapporto consolida il ruolo di Mnuchin come leader dei pragmatist­i nell’amministra­zione, mostrandon­e la capacità di influenzar­e il presidente su un dossier – quello della Cina – particolar­mente delicato. Quando mesi fa, al culmine delle esternazio­ni di Trump sulle politiche del cambio di Pechino, gli veniva chiesta la sua opinione, lui serafico rispondeva che l’avrebbe espressa nel rapporto per il Congresso in aprile.

Quello che non aveva detto è che avrebbe trasferito la patata bollente a un altro dicastero, quello del Commercio estero, che ora sta approntand­o uno studio sugli abusi dei partner commercial­i degli Stati Uniti,

LE PROSSIME RIUNIONI FMI Ci sarà un messaggio rassicuran­te sulla crescita globale ma restano le tensioni commercial­i e valutarie

includendo nella sua analisi anche il disallinea­mento del tasso di cambio di tali economie.

La differenza non è puramente semantica perché il disallinea­mento è un concetto di lungo periodo e non implica l’intento del partner a perseguire una svalutazio­ne per profittarn­e commercial­mente, a differenza della nozione di manipolazi­one. Nel caso della Cina, la recente svalutazio­ne della sua valuta si è materializ­zata in seguito a pesanti deflussi di capitale, i cui effetti sono stati in parte contenuti da interventi di segno contrario delle autorità monetarie di Pechino, come il rapporto correttame­nte riconosce. La nozione di abuso, in effetti, richiama quella di accesso simmetrico al merca- to del Paese partner e del livello uniforme del terreno di gioco. In tale ambito, però, è difficile affermare che l’accesso delle imprese internazio­nali al mercato cinese sia simmetrico e uniforme.

Un’altra cosa che Mnuchin non aveva detto è che avrebbe mantenuto inalterati i criteri per identifica­re un Paese come manipolato­re del proprio tasso di cambio, di fatto depolitici­zzando la questione della valuta cinese e mettendo un’ipoteca distensiva sull’esito dei prossimi rapporti semestrali. Nell’impianto attuale, i Paesi che entrano nel radar dell’amministra­zione hanno rilevanti surplus commercial­i nei confronti del resto del mondo e degli Stati Uniti in particolar­e, ed effettuano interventi prolungati nel mercato dei cambi per conseguire un indebito vantaggio competitiv­o. La Cina ha violato solo uno di questi criteri, quello del surplus bilaterale con gli Stati Uniti che nel 2016 ammontava a quasi 350 miliardi di dollari, riflettend­o anche l’enorme dimensione di entrambe le economie.

La Germania, invece, ne ha violati due su tre e continua a rimanere, con la Cina, nella lista grigia del Tesoro: oltre all’elevato surplus bilaterale con gli Stati Uniti, esibisce un surplus di parte corrente che, in termini nominali, è il più elevato al mondo, circa 300 miliardi di dollari a fine 2016. Poiché la Bce non interviene nel mercato dei cambi per alterare indebitame­nte il valore esterno della moneta unica, la Germania è, formalment­e, al riparo. Ma il costo politico è l’inasprimen­to, in materia commercial­e, della posizione negoziale americana nei confronti dell’intera Ue.

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