Il voto riporta alla luce le antiche divisioni
La Turchia dopo il voto è uscita spaccata in due, ma non è una novità nella storia di questo Paese. Molto prima che Recep Tayyep Erdogan salisse al potere, la Turchia non è mai stata quel blocco monolitico trasmesso prima dalla propaganda della tradizione kemalista e poi dalla sintesi tra Islam e nazionalismo che ha caratterizzato la Turchia contemporanea. Basti pensare alle feroci contrapposizioni ideologiche degli anni ’70 che portano nell’80 al golpe del generale Kenan Evren. L’interrogativo è chiedersi come e quando le differenze riemergeranno in maniera ancora più acuta e se la Turchia sarà capace di sottrarsi alla disgregazione che ha investito il Medio Oriente.
La Turchia nasce da un’amputazione dell’impero ottomano e già allora esistevano divisioni profonde. Mentre l’impero si espandeva, prendendo sotto la sua egemonia dozzine di popoli, si formarono due classi: l’élite cosmopolita dominante erano costituita dagli Ottomani, i sudditi erano i turchi. Nonostante la repubblica di Ataturk con il nazionalismo abbia enfatizzato la compattezza storica del Paese, la suddivisione è rimasta: da un parte i turchi “bianchi”, i laici delle metropoli, dall’altra i “turchi neri”, le classi meno abbienti dell’Anatolia. L’ascesa degli anatolici, emarginati dai seco- laristi, ha rappresentato il grande bacino dei voti dell’Akp che ha attirato i ceti più conservatori dal punto di vista religioso.
Si è così fatta strada negli anni dell’Akp la narrazione di una Turchia trionfante sunnita e turcofona. A Erdogan questa immagine è stata utile per polarizzare la nazione stigmatizzando le differenze perché le divisioni etniche e confessionali lo aiutavano a consolidare la sua base. Eppure la Turchia è un Paese ricco di diversità: ci sono curdi, aleviti, rom, greci, cristiani siriaci, laz, ebrei circassi, armeni. La questione curda è ovviamente in primo piano: i curdi costituiscono un quarto della popolazione e hanno la loro roccaforte nell’Anatolia del SudEst ma sono presenti in tutto il Paese. I curdi hanno votato in gran parte contro Erdogan perché non si fanno più illusioni: la lotta al terrorismo del Pkk è andata fuori controllo. Violenza e repressione sono all’ordine del giorno e non risparmiano nessuno. La cronaca racconta di arresti di tutta leadership dell’Hdp, di devastazioni di intere città e villaggi: dall’estate 2015, quando furono sepolti gli accordi tra i governo e Abdullah Ocalan, nell’Anatolia del Sud-Est ci sono stati 2mila morti e migliaia di rifugiati interni.
Ma questa è soltanto una parte della storia. Ogni lunedì gli aleviti si radunano in un edificio di Fatih, a Istanbul, per celebrare le glorie di Allah. Gli aleviti, che venerano Alì come gli sciiti e gli alauiti siriani, non velano le donne, non vanno in moschea, ritengono disdicevole il pellegrinaggio alla Mecca, non osservano le cinque preghiere giornaliere e sostituiscono il digiuno del Ramadan con l’astinenza nel mese di lutto del Muharram, per ricordare la battaglia di Kerbala e il martirio di Hussein. E poi utilizzano il vino nelle cerimonie del Cem, la casa della preghiera.
Secondo un rapporto americano gli aleviti, che nelle scuole sono obbligati a seguire l’indottrinamento sunnita, sono tra i 12 e i 20 milioni, il 15-25% della popolazione: mancano statistiche ufficiali ma è evidente che rappresentano il secondo culto del Paese, ben distinto dalla versione sunnita dell’Islam. Gli aleviti votano il partito repubblicano o altri movimenti anti-Akp: contro di loro Erdogan ha scatenato una sorta di caccia alle streghe per le poteste di Taksim nel 2013. La versione sunnita dell’Islam dell’Akp ha portato ad avere nel Paese 87mila moschee con un bilancio del ministero degli Affari religiosi, il Diyanet, di 2,2 miliardi dollari, superiore al budget di altri 12 dicasteri. Non solo: gli Imam Hatip, gli istituti religiosi sunniti, che nel 2003 avevano 71 mila allievi, adesso ne contano un milione e 200mila. Curdi e aleviti, come i gulenisti, sono trattati come una questione di sicurezza, non come una parte della nazione che ha dei diritti: anche questa è un’ipoteca sui destini della Turchia.