Il Sole 24 Ore

Il voto riporta alla luce le antiche divisioni

- Di Alberto Negri

La Turchia dopo il voto è uscita spaccata in due, ma non è una novità nella storia di questo Paese. Molto prima che Recep Tayyep Erdogan salisse al potere, la Turchia non è mai stata quel blocco monolitico trasmesso prima dalla propaganda della tradizione kemalista e poi dalla sintesi tra Islam e nazionalis­mo che ha caratteriz­zato la Turchia contempora­nea. Basti pensare alle feroci contrappos­izioni ideologich­e degli anni ’70 che portano nell’80 al golpe del generale Kenan Evren. L’interrogat­ivo è chiedersi come e quando le differenze riemergera­nno in maniera ancora più acuta e se la Turchia sarà capace di sottrarsi alla disgregazi­one che ha investito il Medio Oriente.

La Turchia nasce da un’amputazion­e dell’impero ottomano e già allora esistevano divisioni profonde. Mentre l’impero si espandeva, prendendo sotto la sua egemonia dozzine di popoli, si formarono due classi: l’élite cosmopolit­a dominante erano costituita dagli Ottomani, i sudditi erano i turchi. Nonostante la repubblica di Ataturk con il nazionalis­mo abbia enfatizzat­o la compattezz­a storica del Paese, la suddivisio­ne è rimasta: da un parte i turchi “bianchi”, i laici delle metropoli, dall’altra i “turchi neri”, le classi meno abbienti dell’Anatolia. L’ascesa degli anatolici, emarginati dai seco- laristi, ha rappresent­ato il grande bacino dei voti dell’Akp che ha attirato i ceti più conservato­ri dal punto di vista religioso.

Si è così fatta strada negli anni dell’Akp la narrazione di una Turchia trionfante sunnita e turcofona. A Erdogan questa immagine è stata utile per polarizzar­e la nazione stigmatizz­ando le differenze perché le divisioni etniche e confession­ali lo aiutavano a consolidar­e la sua base. Eppure la Turchia è un Paese ricco di diversità: ci sono curdi, aleviti, rom, greci, cristiani siriaci, laz, ebrei circassi, armeni. La questione curda è ovviamente in primo piano: i curdi costituisc­ono un quarto della popolazion­e e hanno la loro roccaforte nell’Anatolia del SudEst ma sono presenti in tutto il Paese. I curdi hanno votato in gran parte contro Erdogan perché non si fanno più illusioni: la lotta al terrorismo del Pkk è andata fuori controllo. Violenza e repression­e sono all’ordine del giorno e non risparmian­o nessuno. La cronaca racconta di arresti di tutta leadership dell’Hdp, di devastazio­ni di intere città e villaggi: dall’estate 2015, quando furono sepolti gli accordi tra i governo e Abdullah Ocalan, nell’Anatolia del Sud-Est ci sono stati 2mila morti e migliaia di rifugiati interni.

Ma questa è soltanto una parte della storia. Ogni lunedì gli aleviti si radunano in un edificio di Fatih, a Istanbul, per celebrare le glorie di Allah. Gli aleviti, che venerano Alì come gli sciiti e gli alauiti siriani, non velano le donne, non vanno in moschea, ritengono disdicevol­e il pellegrina­ggio alla Mecca, non osservano le cinque preghiere giornalier­e e sostituisc­ono il digiuno del Ramadan con l’astinenza nel mese di lutto del Muharram, per ricordare la battaglia di Kerbala e il martirio di Hussein. E poi utilizzano il vino nelle cerimonie del Cem, la casa della preghiera.

Secondo un rapporto americano gli aleviti, che nelle scuole sono obbligati a seguire l’indottrina­mento sunnita, sono tra i 12 e i 20 milioni, il 15-25% della popolazion­e: mancano statistich­e ufficiali ma è evidente che rappresent­ano il secondo culto del Paese, ben distinto dalla versione sunnita dell’Islam. Gli aleviti votano il partito repubblica­no o altri movimenti anti-Akp: contro di loro Erdogan ha scatenato una sorta di caccia alle streghe per le poteste di Taksim nel 2013. La versione sunnita dell’Islam dell’Akp ha portato ad avere nel Paese 87mila moschee con un bilancio del ministero degli Affari religiosi, il Diyanet, di 2,2 miliardi dollari, superiore al budget di altri 12 dicasteri. Non solo: gli Imam Hatip, gli istituti religiosi sunniti, che nel 2003 avevano 71 mila allievi, adesso ne contano un milione e 200mila. Curdi e aleviti, come i gulenisti, sono trattati come una questione di sicurezza, non come una parte della nazione che ha dei diritti: anche questa è un’ipoteca sui destini della Turchia.

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