Sui mercati svanisce l’effetto Trump
Il calo dell’inflazione sta riportando le quotazioni di bond, azioni, oro e dollaro sui livelli di novembre
pLa “Trumpflation” sta perdendo forza e i mercati non stanno a guardare. Se da metà novembre a metà marzo sono stati trainati proprio da quello che poi è stato ribattezzato come “Trumpflation trade”, nell’ultimo mese hanno invertito la rotta. Le classi di investimento che più erano salite (azioni, in particolare il comparto bancario) hanno perso smalto. Mentre hanno ripreso slancio le asset class che erano state in precedenza vendute (obbligazioni, oro e dollaro).
L’anello dell’inflazione
Gli investitori si muovono sempre in anticipo, supportati dalla teoria prevalente. Dopo che Trump è stato eletto la teoria prevalente era che le sue promesse sull’aumento degli investimenti pubblici e privati(espansione fiscale) si sarebbero ben presto trasformate in un aumento dell’inflazione. A sua volta la crescita dell’inflazione avrebbe spinto la Federal Reserve ad alzare nel corso del 2017 almeno quattro volte i tassi di interesse. Sulla base di questo copione gli investitori hanno comprato azioni e venduto obbligazioni in una spettacolare rotazione dei portafogli. Da novembre a fine 2016 la capitalizzazione delle Borse globali è aumentata di 2mila miliardi di dollari (raggiungendo quota 66mila miliardi) mentre quella delle obbligazioni è scesa di 3mila miliardi.
Nel frattempo l’inflazione negli Usa (e anche nell’Eurozona) rivedeva livelli pre-crisi. I mercati erano convinti che l’espansione fiscale annunciata da Trump avrebbe fatto da staffetta alla politica monetaria, con la Fed quindi supportata nel compito di normalizzare i tassi con una serie di rialzi. Qualcosa però si è inceppato. A metà marzo la banca centrale degli Usa ha sì alzato i tassi (portando il costo del denaro in un range compreso tra lo 0,75% e l’1%) ma dalle dichiarazioni del governatore Janet Yellen è emersa qualche preoccupazione circa il mantenimento della promessa fatta a fine 2016, quella di operare quattro strette monetarie nel 2017. A quel punto le aspettative degli investito- ri sono cambiate: anziché scontare altri tre rialzi fino a dicembre ora i mercati se ne aspettano nella migliore delle ipotesi altri due. Questo perché la Fed - nelle dichiarazioni “da colomba” rilasciate nel meeting di un mese fa - aveva previsto quanto è stato confermato nelle ultime ore dai dati macro. E cioè che a marzo l’inflazione negli Stati Uniti ha rallentato il passo, tornando sui livelli del 2015. L’indice dei prezzi “core” (depurato per le componenti più volatili, materie prime agricole e prodotti energetici) si è attestato al 2%. In netto calo rispetto al dato di febbraio (2,2%) e, soprattutto, alle attese degli investitori (2,3%). A questo punto le stime che proiettavano i prezzi al 2,6% entro fine anno scricchiolano. E con esse anche il “film” che si erano fatti i mercati con l’abbrivo dell’era Trump. Di conseguenza ora stiamo assistendo a uno spettacolare riposizionamento delle asset class su livelli pre-Trump, o quasi.
I bond non scottano più
A metà marzo il rendimento del T- Bond a 10 anni (il titolo governativo degli Usa) era al 2,62% mentre ieri era 2,2%. Anche nell’Eurozona - dove a marzo l’inflazione è scesa all’1,5% rispetto al 2% di febbraio mentre quella “core” si è confermata, come da tre anni a questa parte, sotto l’1% - gli operatori sono tornati ad acquistare titoli di Stato. Il tasso dei BTp a 10 anni è sceso dal 2,53% al 2,3%. Ancor più imponente il ribasso dei tassi del Bund (che sta incassando acquisti, al pari di oro e yen, anche in quanto bene rifugio in vista delle elezioni francesi di fine aprile) scivolato dallo 0,5% allo 0,18%. Gli acquisti sui titoli di Stato - la cui capitalizzazione è risalita a 46mila miliardi - sono supportati dal fatto che anche le aspettative a medio-termine sull’inflazione stanno calando. Negli Usa le prospettive “5y5y”- sul livello del costo della vita nei prossimi 5 anni e per i successivi 5 - sono scese nel corso del 2017 dal 2,6% al 2,37% e nell’Eurozona dall’1,8% all’1,57%.
Banche in calo
L’inversione del “Trumpflation trade” è confermata non solo dagli acquisti sulle obbligazioni ma anche dalle speculari vendite sulle banche. Non a caso quello del credito è stato il settore che più ha beneficiato della prima accelerazione dei mercati (nella fase in cui credevano ciecamente alle promesse di Trump e alla normalizzazione dei tassi Usa). Le banche a Wall Street sono salite del 37% dall’elezione di Trump fino ai picchi di marzo. Da allora però hanno perso l’11%. Anche le banche europee - per quanto la Bce sia molto più lontana della Fed anche solo dall’idea di normalizzare i tassi (difatti è ancora in corso il piano di espansione monetaria chiamato quantitative easing) - hanno avuto un andamento simile: +28% fino ai picchi di marzo e da allora hanno ritracciato del 5,7%. Morale della favola: i mercati ci mettono davvero poco per esaltarsi e cavalcare un trend. Ma fanno altrettanto in fretta a cambiare idea. Mai come in questa fase sono appesi ai prossimi dati sull’inflazione. Che potrebbe continuare a calare, almeno per un po’.