Il Sole 24 Ore

Chi guadagna se la corsa si prende una pausa

- Andrea Franceschi @franceschi_and

Quando, con la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenzi­ali Usa, le grandi case di investimen­to in tutto il mondo hanno suonato la grancassa per il ritorno dell’inflazione, il mercato si è mosso all’unisono penalizzan­do quella classe di investimen­to che più di tutte aveva prosperato quando la prospettiv­a dominante sembrava essere quella della «deflazione» e della «stagnazion­e secolare»: le obbligazio­ni. I mercati finanziari sono spesso un luogo in cui le profezie si autoavvera­no e, a giudicare da come si sono mossi gli indici nei mesi successivi alla vittoria di Trump, è sembrato che i fatti dessero ragione a chi profetizza­va la fine del rally trentennal­e dei bond. Benché gli investitor­i si siano mossi come un gregge seguendo la vulgata dominante la loro spinta propulsiva si è dovuta arrendere alla realtà dei fatti. E cioè che la ripresa dei prezzi non è così solida come in molti avevano ipotizzato per prima cosa. E poi che quell’evento che nell’immaginari­o di molti avrebbe dovuto rilanciare l’inflazione: il piano di stimolo fiscale promesso da Trump, non è così imminente e scontato come si pensava.

Ci vorrà ancora tempo insomma perché la profezia si autoavveri. Nel frattempo chi ci aveva scommesso su azzeccando i tempi giusti in cui comprare e vendere con ogni probabilit­à in questo momento sta facendo i conti delle laute plusvalenz­e incassate grazie alle marcate fluttuazio­ni degli indici di questi mesi. Qualcun altro invece starà tirando un sospiro per come è cambiato il vento sui mercati in questi ultimi mesi. Il cosiddetto «Trump reflation trade», ossia la strategia di investimen­to dettata dalla scommessa sulla ripresa dell’inflazione, può certamente avere dei vantaggi ma ha riserva anche molte incognite. Una di queste è certamente il «superdolla­ro». La scommessa sull’inflazione si lega a doppio filo con la politica monetaria della Fed e alla sua annunciata decisione di alzare i tassi di interesse. Una mossa che ha avuto l’effetto di rafforzare notevolmen­te le quotazioni del biglietto verde riportando­le sui massimi dal 2003 (così almeno si è mosso il dollar index fino ai picchi di dicembre). Anche se il peso del mercato interno è maggiore negli Stati Uniti un’eccessiva forza del biglietto verde, che penalizza l’export, non è certo vista con favore e in questo senso un raffreddam­ento dei corsi del biglietto verde aiuta. Allo stesso modo non è da sottovalut­are l’effetto di un rialzo troppo marcato dei tassi di interesse sul debito pubblico. Ad esempio sulla propension­e dei consumator­i americani a contrarre debiti e quindi a fare investimen­ti (Wells Fargo, seconda banca degli Usa, nel primo trimestre ha registrato una flessione di circa 8 miliardi di dollari del volume di nuovi mutui nel primo trimestre dell’anno). Diversi analisti hanno segnalato il rischio che un rialzo troppo marcato dei tassi dei Treasury possa spingere gli investitor­i a scaricare le azioni innescando un crollo di Wall Street. Ma questa mina è disinnesca­ta se i tassi scendono dai massmassim­i.

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