Chi guadagna se la corsa si prende una pausa
Quando, con la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa, le grandi case di investimento in tutto il mondo hanno suonato la grancassa per il ritorno dell’inflazione, il mercato si è mosso all’unisono penalizzando quella classe di investimento che più di tutte aveva prosperato quando la prospettiva dominante sembrava essere quella della «deflazione» e della «stagnazione secolare»: le obbligazioni. I mercati finanziari sono spesso un luogo in cui le profezie si autoavverano e, a giudicare da come si sono mossi gli indici nei mesi successivi alla vittoria di Trump, è sembrato che i fatti dessero ragione a chi profetizzava la fine del rally trentennale dei bond. Benché gli investitori si siano mossi come un gregge seguendo la vulgata dominante la loro spinta propulsiva si è dovuta arrendere alla realtà dei fatti. E cioè che la ripresa dei prezzi non è così solida come in molti avevano ipotizzato per prima cosa. E poi che quell’evento che nell’immaginario di molti avrebbe dovuto rilanciare l’inflazione: il piano di stimolo fiscale promesso da Trump, non è così imminente e scontato come si pensava.
Ci vorrà ancora tempo insomma perché la profezia si autoavveri. Nel frattempo chi ci aveva scommesso su azzeccando i tempi giusti in cui comprare e vendere con ogni probabilità in questo momento sta facendo i conti delle laute plusvalenze incassate grazie alle marcate fluttuazioni degli indici di questi mesi. Qualcun altro invece starà tirando un sospiro per come è cambiato il vento sui mercati in questi ultimi mesi. Il cosiddetto «Trump reflation trade», ossia la strategia di investimento dettata dalla scommessa sulla ripresa dell’inflazione, può certamente avere dei vantaggi ma ha riserva anche molte incognite. Una di queste è certamente il «superdollaro». La scommessa sull’inflazione si lega a doppio filo con la politica monetaria della Fed e alla sua annunciata decisione di alzare i tassi di interesse. Una mossa che ha avuto l’effetto di rafforzare notevolmente le quotazioni del biglietto verde riportandole sui massimi dal 2003 (così almeno si è mosso il dollar index fino ai picchi di dicembre). Anche se il peso del mercato interno è maggiore negli Stati Uniti un’eccessiva forza del biglietto verde, che penalizza l’export, non è certo vista con favore e in questo senso un raffreddamento dei corsi del biglietto verde aiuta. Allo stesso modo non è da sottovalutare l’effetto di un rialzo troppo marcato dei tassi di interesse sul debito pubblico. Ad esempio sulla propensione dei consumatori americani a contrarre debiti e quindi a fare investimenti (Wells Fargo, seconda banca degli Usa, nel primo trimestre ha registrato una flessione di circa 8 miliardi di dollari del volume di nuovi mutui nel primo trimestre dell’anno). Diversi analisti hanno segnalato il rischio che un rialzo troppo marcato dei tassi dei Treasury possa spingere gli investitori a scaricare le azioni innescando un crollo di Wall Street. Ma questa mina è disinnescata se i tassi scendono dai massmassimi.