La difesa (debole) degli Usa dall’accusa di protezionismo
L’ondivaga politica commerciale dell’amministrazione Trump subisce un’altra sterzata, proprio alla vigilia delle riunioni del G-20 e dell’Fmi, a Washington questa settimana, dalle quali è facile attendersi nuovi allarmi sul rischio protezionismo. Dopo i toni concilianti di Trump verso la Cina, ieri è stato il segretario al Commercio statunitense, Wilbur Ross, a correggere la rotta.
Ross, un falco, si è spinto fino a rinviare al mittente le accuse di protezionismo e ad affermare che gli Stati Uniti sono la meno chiusa delle grandi economie, liquidando come «spazzatura» le critiche sollevate la settimana scorsa dal direttore generale dell’Fmi, Christine Lagarde. «Siamo molto meno protezionisti dell’Europa, del Giappone e della Cina e abbiamo deficit con tutte e tre queste aree. E tutte le volte che facciamo qualcosa per difenderci, lo chiamano protezionismo. È spazzatura», ha dichiarato l’uomo scelto da Trump per ridimensionare la montagna del disavanzo commerciale Usa, oltre 500 miliardi di dollari nel 2016, che salgono a 734 se si esclude l’apporto dei servizi e ci si ferma alle sole merci. Metà di questo disavanzo è generato dall’interscambio con la Cina, che però ha appena scampato il rischio di essere tacciata di “manipolare” lo yuan, in virtù soprattutto del ruolo che può svolgere nella crisi nordcoreana.
Ross, che sta preparando un report sulle pratiche commerciali di 16 Paesi in avanzo commerciale con gli Usa, resta fedelissimo alla campagna «America First», per fermare il furto di «american jobs»: «Non sopporteremo più di essere il deficit che mangia i surplus di tutto il mondo».
La tentazione di proteggere i sistemi economici nazionali con dazi e barriere non tariffarie accomuna in effetti quasi tutti i giocatori globali, con poche eccezioni. Secondo l’ultimo report della Wto sul tema, tra maggio e ottobre del 2016, i Paesi del G-20 hanno adottato 85 nuove limitazioni al commercio, più di 17 al mese, in linea con la media registrata dal 2009 in avanti. Nel complesso, delle oltre 1.671 restrizioni registrate a partire dal 2008, da quando cioè la crisi globale ha rafforzato la spinta dei Governi a chiudersi alla concorrenza globale, solo 408 di queste barriere sono state abbattute (a ottobre 2016). Ne restano così in piedi 1.263, il 5,6% in più rispetto alla fotografia scattata a metà maggio del 2016. E non hanno fatto che crescere: erano 324 nel 2010. Impattano sul 6,5% dell’import dei Venti Grandi, ovvero su 817 miliardi di dollari. È anche a causa di questa tendenza che il commercio internazionale, nel 2016, è cresciuto meno dell’economia, per la prima volta dal 2001.
In questo contesto, gli Stati Uniti non sono rimasti a guardare. Secondo un recente rapporto realizzato da Commissione Ue e International trade centre, l’agenzia Onu per l’internazionalizzazione delle Pmi, il 44% delle piccole e medie imprese europee che esportano negli Stati Uniti incappano in barriere non tariffarie. I dati della Commissione aggiungono che tra il 2000 e il 2015, gli Stati Uniti hanno avviato 15 ispezioni contro merci importate da Paesi Ue, quasi sempre per dumping. In questa classifica, gli Usa si piazzano al secondo posto, alla pari con la Cina e preceduti dall’India (24).
È ancora la Wto invece a d attestare che, tra luglio del 2015 e giugno del 2016, gli Stati Uniti hanno avviato 51 indagini antidumping, ancora una volta preceduti solo dall’India (66) e con un vero e proprio balzo rispetto alle 21 dei 12 mesi precedenti. Nello stesso periodo, l’Unione europea ne ha aperte 13 e la Cina 10. Alle indagini anti-dumping si sommano quelle inverse, sulle tasse imposte da Paesi terzi per difendersi da presunti sussidi all’export. Anche in questo caso gli Stati Uniti primeggiano, con 24 casi sollevati tra luglio 2015 e giugno 2016 (dai 17 del periodo precedente). Staccatissime Ue e Cina, ferme rispettivamente a due e una indagine.
Non a caso, gli Stati Uniti sono anche tra i più assidui frequentatori del meccanismo di risoluzione delle dispute commerciali della Wto, con 114 azioni promosse (19 contro l’Unione europea) e 129 nelle quali compaiono come “imputati” (in 33 casi dalla Ue, 16 dal Canada, 10 dalla Cina). E tutto questo molto prima che alla Casa Bianca arrivasse Trump.