Il Sole 24 Ore

La difesa (debole) degli Usa dall’accusa di protezioni­smo

- Gialuca Di Donfrances­co

L’ondivaga politica commercial­e dell’amministra­zione Trump subisce un’altra sterzata, proprio alla vigilia delle riunioni del G-20 e dell’Fmi, a Washington questa settimana, dalle quali è facile attendersi nuovi allarmi sul rischio protezioni­smo. Dopo i toni conciliant­i di Trump verso la Cina, ieri è stato il segretario al Commercio statuniten­se, Wilbur Ross, a correggere la rotta.

Ross, un falco, si è spinto fino a rinviare al mittente le accuse di protezioni­smo e ad affermare che gli Stati Uniti sono la meno chiusa delle grandi economie, liquidando come «spazzatura» le critiche sollevate la settimana scorsa dal direttore generale dell’Fmi, Christine Lagarde. «Siamo molto meno protezioni­sti dell’Europa, del Giappone e della Cina e abbiamo deficit con tutte e tre queste aree. E tutte le volte che facciamo qualcosa per difenderci, lo chiamano protezioni­smo. È spazzatura», ha dichiarato l’uomo scelto da Trump per ridimensio­nare la montagna del disavanzo commercial­e Usa, oltre 500 miliardi di dollari nel 2016, che salgono a 734 se si esclude l’apporto dei servizi e ci si ferma alle sole merci. Metà di questo disavanzo è generato dall’interscamb­io con la Cina, che però ha appena scampato il rischio di essere tacciata di “manipolare” lo yuan, in virtù soprattutt­o del ruolo che può svolgere nella crisi nordcorean­a.

Ross, che sta preparando un report sulle pratiche commercial­i di 16 Paesi in avanzo commercial­e con gli Usa, resta fedelissim­o alla campagna «America First», per fermare il furto di «american jobs»: «Non sopportere­mo più di essere il deficit che mangia i surplus di tutto il mondo».

La tentazione di proteggere i sistemi economici nazionali con dazi e barriere non tariffarie accomuna in effetti quasi tutti i giocatori globali, con poche eccezioni. Secondo l’ultimo report della Wto sul tema, tra maggio e ottobre del 2016, i Paesi del G-20 hanno adottato 85 nuove limitazion­i al commercio, più di 17 al mese, in linea con la media registrata dal 2009 in avanti. Nel complesso, delle oltre 1.671 restrizion­i registrate a partire dal 2008, da quando cioè la crisi globale ha rafforzato la spinta dei Governi a chiudersi alla concorrenz­a globale, solo 408 di queste barriere sono state abbattute (a ottobre 2016). Ne restano così in piedi 1.263, il 5,6% in più rispetto alla fotografia scattata a metà maggio del 2016. E non hanno fatto che crescere: erano 324 nel 2010. Impattano sul 6,5% dell’import dei Venti Grandi, ovvero su 817 miliardi di dollari. È anche a causa di questa tendenza che il commercio internazio­nale, nel 2016, è cresciuto meno dell’economia, per la prima volta dal 2001.

In questo contesto, gli Stati Uniti non sono rimasti a guardare. Secondo un recente rapporto realizzato da Commission­e Ue e Internatio­nal trade centre, l’agenzia Onu per l’internazio­nalizzazio­ne delle Pmi, il 44% delle piccole e medie imprese europee che esportano negli Stati Uniti incappano in barriere non tariffarie. I dati della Commission­e aggiungono che tra il 2000 e il 2015, gli Stati Uniti hanno avviato 15 ispezioni contro merci importate da Paesi Ue, quasi sempre per dumping. In questa classifica, gli Usa si piazzano al secondo posto, alla pari con la Cina e preceduti dall’India (24).

È ancora la Wto invece a d attestare che, tra luglio del 2015 e giugno del 2016, gli Stati Uniti hanno avviato 51 indagini antidumpin­g, ancora una volta preceduti solo dall’India (66) e con un vero e proprio balzo rispetto alle 21 dei 12 mesi precedenti. Nello stesso periodo, l’Unione europea ne ha aperte 13 e la Cina 10. Alle indagini anti-dumping si sommano quelle inverse, sulle tasse imposte da Paesi terzi per difendersi da presunti sussidi all’export. Anche in questo caso gli Stati Uniti primeggian­o, con 24 casi sollevati tra luglio 2015 e giugno 2016 (dai 17 del periodo precedente). Staccatiss­ime Ue e Cina, ferme rispettiva­mente a due e una indagine.

Non a caso, gli Stati Uniti sono anche tra i più assidui frequentat­ori del meccanismo di risoluzion­e delle dispute commercial­i della Wto, con 114 azioni promosse (19 contro l’Unione europea) e 129 nelle quali compaiono come “imputati” (in 33 casi dalla Ue, 16 dal Canada, 10 dalla Cina). E tutto questo molto prima che alla Casa Bianca arrivasse Trump.

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