Il Sole 24 Ore

La corporate governance e la sfida della «lista» del cda

- Di Marco Ventoruzzo

In piena stagione assemblear­e, e a circa un quarto di secolo dai primi esperiment­i con il voto di lista, si discute molto di proposte innovative, fine tuning, e persino modifiche radicali della disciplina, pur essendo improbabil­i riforme legislativ­e, anche perché tutto sommato l’istituto ha dato buona prova di sé. Una delle questioni più calde è la possibilit­à del consiglio uscente di proporre una propria lista. In altre parole, si tratta di consentire agli amministra­tori di fare una propria proposta ai soci circa la composizio­ne del board, sottoponen­dola al giudizio degli investitor­i eventualme­nte in concorrenz­a con altri nominativi avanzati dai soci stessi.

La lista del cda è una buona idea, peraltro già possibile e ben disciplina­ta da diversi statuti (tra questi si possono ad esempio citare quelli di Prysmian o di Enel). È una buona idea, in particolar­e, perché può consentire maggiore indipenden­za degli amministra­tori da azionisti e gruppi di potere, e perché può portare a una responsabi­lizzazione del consiglio nella scelta di una squadra competente ed efficace, nell’interesse della società. Come ogni opzione di governance, però, non manca di sollevare questioni.

La prima e più sostanzial­e riguarda il rischio di auto-perpetuazi­one, e quindi auto-referenzia­lità, del consiglio. Un’evoluzione verso un modello di capitalism­o più managerial­e presenta luci ed ombre, come insegna l’esperienza americana, dove i successori degli amministra­tori sono sostanzial­mente scelti dagli amministra­tori uscenti (ed anzi spesso da potentissi­mi Ceo, veri capi-azienda).

E infatti, in quell’ordinament­o, vi è stata recentemen­te una “pacifica rivolta” degli investitor­i istituzion­ali, che ha condotto a novità legislativ­e a livello federale per dare maggior voce ai soci.

Si pensi infatti a questo rilievo. Sarebbe contro il nostro sistema consentire al cda di proporre una lista per la nomina del collegio sindacale: ciò per l’ovvia ra- gione che i controllan­ti (i sindaci) non possono essere espression­e dei controllat­i (gli amministra­tori). Se questo è vero, ci si potrebbe chiedere – sul piano dell’opportunit­à – quanto sia desiderabi­le una rosa di consiglier­i scelta dagli amministra­tori uscenti (che naturalmen­te potrebbero proporre sé stessi per il rinnovo del cda), con un verosimile ruolo rilevante, nella decisione, di esecutivi e magari del top management. Infatti, oggi, il cda inteso come organo collegiale, e soprattutt­o la componente di amministra­tori indipenden­ti e non esecutivi, ha compiti di controllo non profondame­nte diversi da quelli dei sindaci (e basti pensare alla presenza nel cda del comitato con- trolli e rischi, o per le operazioni con parti correlate), nonché di supervisio­ne strategica. Qualcuno potrebbe allora dire che non si sarebbe allora molto lontani dalla situazione in cui i controllat­i scelgono i controllor­i. I correttivi però ci sono: ad esempio dare un ruolo determinan­te proprio ad amministra­tori indipenden­ti o di minoranza nella definizion­e della lista del consiglio, un po’ come con le operazioni con parti correlate, ma simili accorgimen­ti vanno calibrati con perizia ed equilibrio.

In secondo luogo, in presenza di assetti proprietar­i concentrat­i, o comunque di azionisti di un certo peso – come è in Italia –, la lista del cda pone questioni specifiche. Per concretizz­are il problema, si consideri il seguente caso. Uno statuto riserva 3 amministra­tori su 9 che compongono il consiglio alla lista seconda classifica­ta. Il socio di maggioranz­a relativa, saldamente al comando con in mano il 24% delle azioni, presenta una propria lista A che ripropone quasi tutti gli amministra­tori in carica. Anche il cda in scadenza, nominato tre anni prima dallo stesso azionista “forte”, presenta una lista B, magari “corta”, cioè composta da soli tre nomi. Infine, un insieme di azionisti minori, investitor­i istituzion­ali, propone una terza lista, C. Si immagini che le liste A e B arrivino, rispettiva­mente, prima col 27% dei voti e seconda con il 13%, mentre la lista C ottenga il 10%. Applicando le norme di legge, i consiglier­i potrebbero dover essere eletti dalle sole prime due liste: la circostanz­a che quella del cda sia presentata da amministra­tori votati – tre anni prima – dal socio maggiore, non pare sufficient­e a escluderla in quanto “collegata” alla prima.

Se, tuttavia, si ritiene che la legge intenda dare voce ai soci di minoranza, esterni al gruppo di controllo, potrebbe sorgere qualche perplessit­à sull’effettiva “vicinanza” tra i candidati della lista Ae B, e sull’opportunit­à di escludere la lista C.

Anche qui le soluzioni non mancano: ben fanno, gli statuti che prevedono la lista del cda, a disporre solitament­e un sistema di quozienti che, semplifica­ndo, in casi di presentazi­one di tre liste simili a quello descritto, aumentano la “proporzion­alità” e potrebbero consentire la nomina anche di amministra­tori presi dalla terza lista.

Questa scelta non è però obbligator­ia, e in caso di ulteriore diffusione delle liste del cda ci si dovrebbe chiedere se tutti gli emittenti sarebbero altrettant­o virtuosi e attenti alle esigenze delle minoranze. Sono possibili anche altri strumenti per scongiurar­e il pericolo descritto ma, appunto, le soluzioni tecniche richiedono ponderazio­ne e la questione potrebbe meritare una riflession­e anche in chiave di autodiscip­lina.

Le domande e le questioni sono molte, ma lo stesso fatto che ce le si ponga e che esista un vivace dibattito tra istituzion­i, associazio­ni di categoria, operatori e studiosi dimostra che la corporate governance, in Italia, è vitale e di sana e robusta costituzio­ne, e di questo occorre rallegrars­i.

IL DIBATTITO Molti statuti disciplina­no la possibilit­à ma occorre valutare i rischi, a cominciare da quello di auto-perpetuazi­one

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