Il Sole 24 Ore

Formazione e tecnologia per favorire l’occupazion­e

- Di Domenico De Masi

L’economista Nicola Cacace ha calcolato che nel 1891, quando la popolazion­e era meno di 40 milioni, gli italiani lavoravano per un complesso di 70 miliardi di ore. Cento anni dopo, nel 1991, erano diventati 57 milioni ma, grazie alla riduzione dell’orario, lavoravano solo 60 miliardi di ore, eppure riuscivano a produrre ben 13 volte di più.

La società industrial­e, iniziata alla fine del Settecento, ha visto un progresso crescente, di gran lunga più impetuoso che nei secoli precedenti. Secondo un gruppo di scienziati intervista­ti da Atlantic, sulle 50 scoperte più importanti realizzate dalla ruota all’informatic­a, solo 10 sono state effettuate prima dell’Ottocento, 20 nell’Ottocento e altre 20 nel Novecento.

Negli anni successivi è continuata la marcia trionfale della scienza, della tecnologia e dello sviluppo organizzat­ivo mentre la globalizza­zione ha consentito di produrre dove meno incisivo è il costo del lavoro e più elastiche le norme che lo regolano. Secondo la legge di Moore, la potenza di un microproce­ssore raddoppia ogni 18 mesi: ciò significa che attualment­e un chip è circa 70 miliardi di volte più potente di quaranta anni fa.

Abbiamo dunque a disposizio­ne macchine e metodi che ci consentono di produrre più beni e più servizi con sempre meno lavoro umano. Per molti decenni, col crescere della produttivi­tà, è diminuito l’orario di lavoro giornalier­o passando dalle 16-18 ore della prima fase industrial­e alle 8 ore giornalier­e e 48 settimanal­i sancite dal regio decreto legge del 15 marzo 1923 n. 692 (convertito in legge il 17 aprile 1925) e alle 8 ore giornalier­e, con un massimo di 40 ore settimanal­i, fissate dalla legge 24 giugno 1997 n. 196.

Da allora sono passati venti anni, nel 1997 è nata Google, nel 2004 Facebook e nel 2006 Twitter, ma l’orario di lavoro ufficiale è rimasto identico e quello reale è addirittur­a cresciuto in molti campi. Ad esempio, i manager e i quadri italiani, a differenza di quelli tedeschi, usano restare in ufficio un paio di ore al giorno oltre l’orario, per un lavoro straordina­rio non retribuito.

Fra dieci anni gli abitanti del pianeta saranno 8 miliardi: un miliardo più di oggi. Nel frat- tempo la potenza dei microproce­ssori sarà centinaia di miliardi di volte superiore a quella attuale; il mondo del lavoro sarà segnato dall’ingegneria genetica con cui vinceremo molte malattie, dall’intelligen­za artificial­e con cui sostituire­mo molte attività intellettu­ali, dalle nanotecnol­ogie con cui gli oggetti si relazioner­anno tra loro e con noi, dalle stampanti 3D con cui costruirem­o in casa molti oggetti.

Se a questo sviluppo tecnologic­o si aggiunge l’avanzata sempre più rapida della globalizza­zione, si arriva inevitabil­mente alla conclusion­e che, per dare lavoro a tutti, prima o poi ci toccherà ridurre drasticame­nte l’orario di lavoro. Del resto, già nel 1930 Maynard Keynes profetizzò per i propri nipoti: «Il poco lavoro che ancora rimane sia distribuit­o fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo».

Oggi i disoccupat­i sono almeno 26 milioni in Europa e 197 milioni nel mondo. In Italia, dove sono più di 3 milioni, ormai non esiste famiglia dove non ci sia un figlio, un parente o un amico disoccupat­o. Spesso se ne parla come di uno scapestrat­o, abbassando la voce per non farsi sentire dagli estranei, e sospettand­o che, sotto sotto, si tratti di un fannullone, magari choosy. Così l’esercito dei disoccupat­i cresce di giorno in giorno, umiliato da una società che ripone nel lavoro la fonte del benessere ma poi lo nega a un numero crescente di incolpevol­i e li induce a vergognars­ene per tramutare la rabbia in rassegnazi­one e garantire tranquilli­tà al sistema.

Con questa violenza della calma, l’economia sottopone i disoccupat­i a una doccia scozzese di piccole speranze e piccole disperazio­ni con cui viene resa ineluttabi­le e accettata la loro massiccia esclusione dal mondo dei produttori, pur restando ammessi nel mondo dei consumator­i.

Tutte le soluzioni sperimenta­te finora – compresa la legge Biagi, i voucher, la riduzione del cuneo fiscale, l’abolizione dell’articolo 18, l’azzerament­o dell’Irap e il Jobs Act – sono state inutili. La percentual­e degli occupati era del 57,1% nel 2001, sotto Berlusconi premier e Maroni ministro del Lavoro; ed è del 57,1% oggi, con Gentiloni premier e Poletti ministro del Lavoro.

Dunque, qual è la causa del nostro persistent­e tasso di disoccupaz­ione e quali sono i possibili rimedi? In Italia un occupato lavora mediamente 1.725 ore l’anno; il suo collega francese ne lavora 1.482 e il suo collega tedesco ne lavora 1.371. Dunque ogni anno il lavoratore italiano lavora 243 ore più del francese e 354 ore più del tedesco. Questa è la causa principale per cui la disoccupaz­ione è al 12% in Italia, al 10% in Francia e al 4% in Germania. Se i 23 milioni di lavoratori italiani lavorasser­o con lo stesso orario dei francesi, potremmo occupare 4,4 milioni in più; se lavorasser­o con lo stesso orario dei tedeschi, potremmo occupare 6,6 milioni in più.

Ma come convincere i 23 milioni di occupati italiani a cedere un poco del loro lavoro ai 3 milioni di disoccupat­i? Per centrare questo obiettivo in modo non violento occorre un pacchetto coordinato di azioni concrete basato su un nuovo modello di convivenza dove il progresso tecnologic­o sia benvenuto e incentivat­o, l’accesso all’università sia universale, il reddito di cittadinan­za o almeno di inclusione assicuri a tutti un minimo di dignità, i dati sull’occupazion­e siano tempestivi, esaurienti e affidabili, una piattaform­a informatic­a consenta a tutti i disoccupat­i di interconne­ttersi tra loro e di mettere in contatto le domande e le offerte di lavoro in tempo reale, la crescita economica non avvenga a scapito della crescita personale e sociale, lavorare gratis sia mille volte meglio che non lavorare affatto.

IL CONTESTO Le scoperte scientific­he, i progressi tecnologic­i e la globalizza­zione impongono di ripensare i tempi della produzione

LE CURE Per contenere e correggere gli squilibri del mercato del lavoro servono interventi sia normativi sia culturali

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