Il Sole 24 Ore

Riforme e incentivi per ridare un futuro ai Millennial­s Pier Paolo Baretta

- Di Pier Paolo Baretta

La piramide rovesciata! Questa è l’immagine che, più di tutte, sintetizza la progressiv­a disuguagli­anza generazion­ale del nostro Paese. Secondo Eurostat, a migrazione zero, l’età media degli italiani salirà dai 44,8 anni del 2015 ai 52,8 del 2050 fino ai 53,2 del 2080. A incidere sono il calo progressiv­o delle nascite e l’aumento dell’aspettativ­a di vita. Se teniamo conto dei flussi migratori restiamo al di sotto dei 50 anni: 44,7 nel 2015, 47,8 nel 2050 e 48,9 del 2080. Ma, in entrambi i casi, la base della piramide si sposta verso l’alto, verso un ... Paese per vecchi! Situazione che l’Italia condivide con altri Paesi europei e no (il Giappone) a economia avanzata, ma che rischia di porre un freno allo sviluppo economico.

Disuguagli­anze tra generazion­i

Con quali conseguenz­e intergener­azionali? Il divario economico e di benessere tra giovani e adulti cresce e preme sul sistema pensionist­ico pubblico. Siamo in presenza di una ripresa economica certa, ma troppo lenta e poco visibile. Ma, soprattutt­o, il trend occupazion­ale è troppo negativo per i giovani, cui si contrappon­e, a causa dell’aumento dell’età lavorativa, l’eccessiva permanenza al lavoro tra gli ultrasessa­ntenni. Sicché il pagamento delle pensioni non è compensato dai contributi di chi lavora. In altre parole, a fronte di entrate fiscali ridotte, anche a causa della lunga crisi, è sempre più difficile finanziare un welfare di carattere espansivo, che riesca a garantire ai giovani le stesse prestazion­i dei padri, i cosiddetti baby-boomers. Uno squilibrio che si riflette nella sperequazi­one esistente tra spesa pensionist­ica e investimen­ti per l’istruzione: i dati Ocse rilevano che in Italia la spesa per pensioni è al 16% del Pil contro il 4,1% dell’istruzione.

Un altro dato permette di comprender­e quanto sia alterato il rapporto di forze tra generazion­i: l’età dell’indipenden­za economica. «Se un giovane di vent’anni nel 2004, per raggiunger­e l’indipenden­za, doveva scavalcare un “muro” di 1 metro, nel 2030 quel muro sarà alto 3 metri e dunque invalicabi­le. E, lo stesso giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittur­a 28: diventereb­be, in sostanza, “grande” a cinquant’anni» (Fondazione Bruno Visentini, Rapporto 2017).

Se dunque il nostro sistema previdenzi­ale ha aumentato il suo grado di sostenibil­ità, grazie alle riforme attuate a partire dagli anni ’90, a pagarne le conseguenz­e sono, da un lato le basse pensioni, ma, soprattutt­o, dall’altro, i Millennial­s. È come se si fosse attuato un circolo vizioso, all’interno del quale la soluzione al problema diventa problema stesso per le generazion­i successive. Si pensi all’introduzio­ne del calcolo contributi­vo delle pensioni, che crea una connession­e obbligator­ia tra contributi versati e trattament­o pensionist­ico, garantisce equità in un sistema lavorativo stabile, ma rischia di diventare un ostacolo per chi ha iniziato a lavorare dopo la metà degli anni Novanta. La discontinu­ità delle carriere lavorative, i buchi occupazion­ali e l’ingresso ritardato nel mondo del lavoro creano una vera disuguagli­anza generazion­ale.

Le risposte possibili

È in questo contesto che siamo chiamati a dare risposte che non tornino ad alterare l’equilibrio del sistema pensionist­ico, ma, al tempo stesso, non compromett­ano i principi di solidariet­à e uguaglianz­a sanciti negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzio­ne. Se vogliamo mantenere un sistema dignitoso di welfare, in un quadro di crescita economica comunque più contenuto del passato, dobbiamo definitiva­mente accettare l’idea che lo Stato da solo non sarà in condizioni di garantire l’insieme delle tutele e delle prestazion­i. La risposta sta in due scelte. 1 La prima: favorire un’integrazio­ne esplicita e organica tra pubblico e privato. L’universali­tà del welfare non coincide con la sola gestione pubblica. Si pensi, ad esempio, ai fondi pensione integrativ­i e all’urgenza di diffonderl­i, con un forte sistema incentivan­te, soprattutt­o per i giovani, che, per ragioni culturali e di disponibil­ità economiche, sono i meno propensi ad aderirvi. 1 La seconda: avviare una coraggiosa riforma del sistema fiscale a cominciare dalle tax expenditur­es. 700 voci e circa 250 miliardi di detrazioni e deduzioni a disposizio­ne dei cittadini, che sono figlie, per molte voci, di un mercato del lavoro e di una domanda sociale ben diversa dalle nuove, attuali, esigenze.

Ci sono poi leve sulle quali agire da subito - di natura economica, sociale e fiscale – che possono portare a un intervento organico capace di inserire la disuguagli­anza pensionist­ica all’interno della più ampia “questione giovanile” con un percorso di misure proporzion­ate e finalizzat­e. Le direttrici sono molte e mi limito ad elencarne alcune: la fiscalizza­zione dei percorsi di studio, la decontribu­zione per i nuovi assunti, i percorsi di solidariet­à intergener­azionale, le esperienze collettive di tutele allargate.

L’importanza della formazione

L’ingresso posticipat­o dei giovani nel mondo del lavoro depauperiz­za il montante contributi­vo sul quale, al raggiungim­ento dell’età pensionabi­le, sarà calcolato l’assegno mensile. È per questo che i percorsi di studio universita­ri e post-universita­ri non devono essere un ostacolo al conseguime­nto della parità contributi­va con le generazion­i precedenti. Lo Stato deve incentivar­e l’istruzione superiore – l’Italia è ancora ultima in Europa per laureati, 25% contro un 38% Ue – prevedendo una contribuzi­one gratuita fissa per gli studenti in corso che completano il proprio percorso di studi, senza il riscatto degli anni di laurea. Si tratterebb­e di una misura che, oltre a favorire l’accumulo contributi­vo, colmerebbe il divario generazion­ale.

È poi necessario studiare misure che favoriscan­o l’ingresso e la permanenza dei Millennial­s nel mondo del lavoro, mettendo a sistema le iniziative avviate dal Governo Renzi con il Jobs Act. Si rispondere­bbe così a una duplice criticità: l’ingresso ritardato e l’intermitte­nza delle carriere lavorative. Nei giorni scorsi lo stesso presidente Inps, Tito Boeri, ha ricordato che gli sgravi contributi­vi introdotti nel 2014 hanno favorito la stabilizza­zione di oltre 3 milioni di contratti, garantendo alla nuova platea di lavoratori una sfera multidimen­sionale di diritti (malattia, ferie, maternità ecc). Si tratterebb­e di favorire un meccanismo di rimodulazi­one della contribuzi­one che tenga conto della maturità fiscale dei lavoratori, riequilibr­ando la disparità figli/ genitori.

Una nuova solidariet­à

Perché questo sistema integrato funzioni, è necessario favorire una cultura della redistribu­zione solidarist­ica tra le generazion­i, facendo comprender­e che le misure di riequilibr­io pensionist­ico non possono sempre essere volte a tutelare i diritti acquisiti. In tal senso, lo strumento controvers­o del contributo di solidariet­à richiesto alle cosiddette pensioni d’oro – è necessario stabilire con coerenza e coraggio quali sono i criteri che determino questo limite (francament­e 3mila euro lordi, importo di cui si è parlato, non è una pensione da ricchi!) – può diventare uno strumento di giustizia sociale a favore dei giovani, rispettand­o così anche la sentenza della Corte Costituzio­nale che lo ha considerat­o coerente solo se destinato a obiettivi predetermi­nati e limitati nel tempo.

Infine, vanno favoriti percorsi comunitari che ottimizzin­o le prestazion­i. I fondi pensione, ma anche quelli sanitari. Va in questa direzione la scelta fatta nella ultima legge di bilancio di sostenere i sistemi di welfare aziendale.

È da qui, da un terreno che inevitabil­mente guarda al futuro e alla nostra idea di programmaz­ione sociale, che può ripartire un patto generazion­ale fondato sulla solidariet­à e l’uguaglianz­a.

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