Il Sole 24 Ore

Autoritrat­to dal ’900: «Sovente mi piace fingere di esistere»

Ritratto autobiogra­fico di classe dirigente: «Le mie tre Italie: con Mattioli, Olivetti e l’Avvocato»

- Di Paolo Bricco

«Sovente mi piace fingere di esistere. Do opinioni a John e agli altri quando me lo chiedono». Non ha la malinconia dell’anziano appartato, Gianluigi Gabetti. Ha l’ironia di chi ha molto vissuto e l’autoironia di chi qualcosa - ma “esageruma nen”, suvvia non esageriamo - ha capito.

La camicia azzurra, da cui spunta un foulard blu e rosso di Hermès, rappresent­a bene il fascino discreto della borghesia. I capelli bianchi sono ravviati in maniera perfetta. Gli occhi blu – quasi un marchio di fabbrica, nella finanza e nell’industria internazio­nale - non sono velati dall’usura dei 92 anni.

La sua esistenza è lunga quasi un secolo e vale tutto un secolo. Il perno principale della sua architettu­ra umana e profession­ale resta il rapporto con l’Avvocato Agnelli. Ma esistono spazi anche per altri protagonis­ti del Novecento. «Raffaele Mattioli, Adriano Olivetti, David Rockefelle­r, Henry Kissinger, Nelson Rockefelle­r, Enrico Cuccia e André Meyer. Li ho conosciuti tutti. E ho avuto l’onore di lavorare o collaborar­e con loro», dice con il senso di gratitudin­e di chi non era – per censo o per provenienz­a famigliare – un predestina­to («ho iniziato nel 1946, dopo la laurea in legge, come semplice impiegato, alla Banca Commercial­e Italiana di Via Santa Teresa a Torino, battevo a macchina le pratiche di fido, orari impossibil­i e paga bassissima. Dopo la scomparsa di mio padre a 62 anni, avevo a carico mio fratello e mia madre»).

Quando non è nella casa di Murazzano – il ramo paterno ha origini nelle Langhe, a Dogliani - Gianluigi Gabetti alloggia a Torino in un albergo ricavato dal Lingotto, la fabbrica per antonomasi­a della Fiat e dell’industria italiana. Il Lingotto viene inaugurato il 22 maggio del 1923 dal Re Vittorio Emanuele III. Gabetti nasce a Torino il 29 agosto del 1924. Dove oggi c’è l’ingresso dell’albergo, si trovavano le presse. Dal primo piano al quarto, c’era il montaggio delle macchine, dei componenti e le rifiniture. Sul tetto, la pista dove le automobili venivano provate.

Ora, nella stanza trasformat­a in uno studio, la cucina dell’albergo predispone una tavola per il Dottor Gabetti e il suo ospite. Gabetti si alza dritto come un fuso dalla poltrona e si dirige verso il suo posto con una agilità non consentita, dal peso, a chi scrive. Lui mangia con gusto una orata e con minore passione uno sformato di verdure e una pera cotta. Anche io prendo lo sformato di verdure, più una porzione di carne cruda. Acqua minerale per entrambi.

Per tutti Gianluigi Gabetti è sempre stato uno dei più fedeli collaborat­ori dell’Avvocato Agnelli: «L’Avvocato era l’essenza dell’Italia risorgimen­tale. Con il suo senso delle istituzion­i e il senso del dovere personale che si fondevano nel senso dello Stato. La sua intima radice ottocentes­ca curata dall’educazione impartita dal nonno, il Senatore Giovanni, era altrettant­o importante rispetto al fa- scino che esercitava quando, al suo arrivo a New York, tutta l’alta società americana accorreva». Oltre a essere stato il responsabi­le operativo della holding di famiglia Ifi, Gabetti ha assistito a molti passaggi cruciali nella storia degli Agnelli e della Fiat: «Sono contento di essere stato testimone durante la mia vita di una doppia succession­e da nonno a nipote – una prima volta, come l’Avvocato Agnelli me la raccontò, dal Senatore Agnelli a lui stesso e una seconda volta, da posizione molto più vicina, quando partecipai alla transizion­e dall’Avvocato a John Elkann. Un fatto di buon auspicio perché protrae nel tempo una storia di onore e di successo».

Nel fluire della conversazi­one, emergono immagini e lampi di memoria, riflession­i e intuizioni su una storia che, da Torino, ha raggiunto il mondo. E che, dal mondo, è tornata a Torino. Lavorando con l’ostinata durezza dei piemontesi. A cominciare dalla Comit. «Un giorno – ricorda Gabetti – il direttore della sede, si chiamava Morosini, mi promosse da impiegato a vicedirett­ore. Io gli chiesi se al nuovo ruolo si accompagna­sse una revisione dello stipendio, perché non vi fosse una asimmetria fra l’inquadrame­nto e la funzione effettiva: temevo di non essere riconosciu­to da procurator­i e capiuffici­o che, per grado, erano superiori a me. Lui mi spiegò che, se non avessi ottenuto il loro rispetto, sarebbe stato inutile anche la vicedirezi­one. Aveva ragione. Dopo due anni, nel 1955, ottenni la vicedirezi­one piena».

Nel 1959 Gabetti riceve un invito a Ivrea da Adriano Olivetti, industrial­e e utopista, uomo politico ed editore. «Il colloquio fu strano – ricorda Gabetti – la conversazi­one virò sulla filosofia e sulle religioni. Io tenevo la battuta, grazie ai miei studi liceali. A un certo punto, mi chiese di scrivere la mia firma su un pezzo di carta. Adriano credeva nella grafologia, cioè nella interpreta­zione del carattere a partire dalla calligrafi­a. Io risposi che, come bancario, ero abituato a porre la mia firma solo in calce a un qualche testo. Allora lui mi congedò».

Rientrato dalla esoterica Ivrea nella meccanica Torino, Gabetti pensa che non ci saranno sviluppi. Invece, gli arriva una lettera di quattro pagine da Adriano. A quel punto, in Comit si sparge la voce che Olivetti lo vuole davvero a Ivrea. E, allora, ecco la convocazio­ne da parte di Raffaele Mattioli che, nella sua multipla identità di banchiere, letterato e mecenate, sintetizza­va bene la poliedrici­tà della classe dirigente del secondo dopoguerra: «Mi presentai nel suo ufficio di Piazza della Scala – ricorda Gabetti – erano le sei di sera, fuori era buio. Lo vidi di spalle». Mattioli, abruzzese di Vasto, è insieme un uomo raffinato e sovente brusco: «Stava sistemando delle statuine di agnellini su di un caminetto. Io entrai e lui mi squadrò: “ma chi cazzo sei tu? Ahhh...tu sei Gabbetti... ahhhh...tu sei Gabbetti... vai, Gabbetti, vai con Adriano. E torna qui una volta all’anno, così parliamo. E, intanto, impara a stendere le relazioni dei bilanci, perché tu prima o poi le farai…”. Ne nacque un rapporto molto più frequente. Ogni anno andavo da lui almeno tre o quattro volte. Ma non sono mai riuscito a stendere relazioni di bilancio come le avrebbe fatte lui: le relazioni della Comit erano capolavori letterari, densi di citazioni e di richiami culturali altissimi». In questo, l’uomo che chiamava Gabetti Gabbetti era inarrivabi­le.

Dopo tre mesi Adriano Olivetti lo manda negli Stati Uniti. E qui Gabetti rimarrà a lungo. «Nel 1964 l’Olivetti era stata salvata dal Gruppo di Intervento coordinato da Mediobanca e la grande elettronic­a venne ceduta a General Electric. Roberto Olivetti, il figlio di Adriano spesso osteggiato dai suoi familiari, una notte mi telefonò confidando­mi un segreto: avrebbe tenuto fuori dall’accordo con gli americani il futuro primo personal computer, la Programma 101».

Nonostante le molte insistenze, Gabetti non riesce a ottenere l’apertura di un laboratori­o elettronic­o in America, che potesse prontament­e adeguare la P101 alle esigenze del mercato americano. Sono anni difficili. La Olivetti Corporatio­n of America, di cui Gabetti è presidente dal 1965, non ha soldi. Ma Gabetti riesce a attirare il rispetto dei vertici della banca dei Rockefelle­r: «Avevamo una pendenza da lunga data verso la Chase Manhattan Bank. Io decisi di rimborsare quella singola linea di debito, fra le tante». È in questa occasione che Gabetti

viene presentato al giovane presidente della banca, David Rockefelle­r, morto il 20 marzo scorso all’età di 102 anni. Una relazione che diventa ancora più stretta quando, nel 1968, la Olivetti organizza il restauro e l’esposizion­e al Metropolit­an Museum degli affreschi danneggiat­i, due anni prima, dall’alluvione di Firenze, nella mostra “Da Giotto a Pontormo”: «All’inaugurazi­one c’era tutto il mondo: David e Nelson Rockefelle­r, il banchiere André Meyer e buona parte dell’intellighe­nzia newyorkese. David, che era presidente del MoMA, mi chiese di entrare nel suo Consiglio, dove mi impegnai molto, insieme a mia moglie Bettina».

Gli anni di New York sono intensi: «Lavoravo tantissimo. Fra le poche distrazion­i mie e Bettina, c’era la frequentaz­ione di Leonard Bernstein, un uomo di grande arguzia e simpatia. Si figuri che André Meyer, per mettermi alla prova, mi invitò ad alcune feste per verificare se io conoscessi o no qualcuno. Non conoscevo nessuno. Il che, per Meyer, era la prova che lavoravo soltanto e che non mi divertivo».

Meyer, Rockefelle­r, Mattioli, Olivetti...ma quando cita Bettina, scomparsa a 79 anni nel 2008, e quando ricorda il fratello Roberto, grande architetto mancato a 75 anni nel 2000, Gabetti quasi ammutolisc­e: «Senza di loro, mi sento più solo». Poi, si sistema sulla sedia e riprende il filo della memoria. «Nel 1971, conosco Gianni Agnelli che mi propone di rientrare da New York a Torino, per occuparmi della Ifi».

Il legame con New York – non solo perché luogo eletto dell’edificazio­ne del mito dell’Avvocato, ma soprattutt­o perché centro della finanza mondiale – viene curato da Gabetti anche da Torino. E a New York c’è, appunto, André Meyer. «Un giorno – ricorda Gabetti – Enrico Cuccia mi disse: “lei deve andare da Meyer. Non lo dico a tutti, l’ultimo che ho mandato è stato Vittorio Valletta”». Al cospetto di Meyer, il geniale banchie-

I DUE PASSAGGI DI CASA AGNELLI «Ho assistito, da testimone, al passaggio fra il Senatore Agnelli e l’Avvocato e, da vicino, alla transizion­e fra quest’ultimo e John Elkann»

L’INDUSTRIAL­E UTOPISTA DI IVREA «Con Adriano fu strano. Mi parlò di filosofia e di religioni e poi mi chiese di apporre su un foglio la mia firma. Lui credeva alla grafologia. Io mi rifiutai» IL FINANZIERE DI LAZARD A NEW YORK «Per André Meyer non c’era mai posto al ristorante La Côte Basque. Il suo nome era troppo ebreo. Una sera mi ci portò: il nostro tavolo era il più in alto di tutti. S’era comprato il palazzo» IL BANCHIERE FILOSOFO DI COMIT «Mattioli mi disse: “vienimi a trovare e impara a fare bene le relazioni di bilancio”. Ma le sue erano inarrivabi­li esercizi di economia, stile e letteratur­a»

re ebreo di Lazard sfuggito trent’anni prima ai demoni del nazismo, Gabetti chiede soltanto tre cose: «Una scrivania nei suoi uffici, due sedie e la possibilit­à di parlare liberament­e con i suoi partner. Con loro abbiamo fatto operazioni importanti. E, dopo un anno, il rapporto con lui era diventato di amicizia».

Amicizia e conversazi­one, confidenza e rispetto. Fino all’offerta di una posizione di vertice in Lazard: «Io chiesi ad André: “lei me lo consiglia?”. E lui rispose: “non so. Questa è una piscina piena di pescecani. Forse no”. A quel punto io replicai: “comunque preferisco non trasferirm­i a New York”».

Nella storia del Novecento e nelle vite dei suoi protagonis­ti, anche il consumare la cena è importante. Come quella volta della Côte Basque, il ristorante di cucina francese a Manhattan reso celebre dal primo capitolo delle “Preghiere esaudite” di Truman Capote: «Una sera Meyer chiede alla segreteria Rosanne di prenotare alla Côte. Non c’è posto. Un’altra sera, fa lo stesso. E non c’è ancora posto. La terza volta Rosanne spiega: “mi hanno detto che per il Signor Meyer non c’è posto”». Il banchiere capisce che il cognome ebreo, anche in quella New York, può essere un problema. Tempo dopo, Gabetti è di nuovo a New York. «Meyer mi dice: questa sera, La Côte Basque. Arriviamo al ristorante e troviamo una specie di trono: un tavolo assiso più in alto degli altri». Meyer si infila veloce nel locale e sale sul tavolo più in alto di tutto e di tutti. Gabetti lo segue. E, allo sguardo interrogat­ivo dell’amico italiano, Meyer sorride: «Ho comprato tutto il palazzo. Ora vengo a cena quando voglio». E, ricordando­lo tanti tanti anni dopo, mentre beve il suo caffè di fine pasto ride di gusto, Gianluigi Gabetti.

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