Il Sole 24 Ore

«La nostra battaglia non muore»

A 40 anni dal primo raduno a Buenos Aires, parla una delle Madres dei «desapareci­dos», il cui figlio sparì nel 1975: «Il presidente Macri vuol cancellare la memoria storica. Ma anche dopo di noi s i lot t e r à p e r l a ver i t à »

- Di Eliana Di Caro

iamo anziane, rimaste in poche, alcune di noi si aiutano con il bastone, altre sono sulla sedia a rotelle, ma idealmente tutte in piedi e con le mani alzate a proseguire la nostra battaglia. E non ci sentiamo sole. Siamo andate a parlare nelle scuole, nelle università perché vogliamo che ci sia la consapevol­ezza di quello che è accaduto in questo Paese. Siamo tranquille che la lotta andrà avanti». A fatica si riesce a interrompe­re il flusso impetuoso del racconto che si percepisce nitido, nonostante i quasi 12mila chilometri di distanza.

Taty Almeida parla al telefono da Buenos Aires, la sua voce roca e potente si è fatta sentire tutti i giovedì in Plaza de Mayo da quarant’anni, con quelle delle Madres raccolte di fronte alla Casa Rosada a urlare «Dove sono i nostri figli». Racconta la sua storia, la stessa di tante argentine con il fazzoletto bianco sul capo, vittime del colpo di Stato del ’76 che fece desaparece­r con i voli della morte 30mila persone inghiottit­e dalle acque del Rio della Plata. «Ho tre figli, Jorge, Alejandro, Maria Fabiana. Quando Alejandro aveva 20 anni, il 17 giugno del 1975, non tornò a casa. Il 1975 è un anno molto importante: indica che il genocidio è cominciato prima del golpe (del 24 marzo del 1976 ndr), sotto il Governo di Isabelita Perón. Alejandro studiava, era al primo anno di Medicina. Era un militante dell’Erp (Esercito rivoluzion­ario del popolo), non mi diceva niente di quel che faceva per proteggerm­i. Nella mia famiglia c’erano molti militari - fratelli, cognati - non voleva coinvolger­mi e farmi preoccupar­e. Quel giorno mi disse solo: domani non vado all’Università. Ancora oggi c’è gente che dice “Ci sarà un motivo se sono spariti” e noi madri rispondiam­o con orgoglio “Certo non perché erano stupidi”».

Taty Almeida non aderisce subito al movimento delle Madres (lo fa nel 1980), un po’ perché all’inizio non si rassegna e confida nel ritorno del figlio, un po’ per via della sua estrazione sociale. «Non è stato facile per me avvicinarm­i. Molte erano casalinghe o attiviste, io ero un’insegnante. Ognuna aveva una storia diversa, se non fosse stato per la scomparsa dei nostri figli non ci saremmo mai incontrate. Temevo di essere respinta e invece la sorte di Alejandro era la stessa di tanti ragazzi... contava solo questo. Stare insieme ci aiutava a condivider­e il dolore, la perdita, la lotta. Il dolore lo abbiamo trasformat­o in una battaglia pacifica». Si emoziona ancora quando rievoca il 30 aprile del 1977, quando 14 donne coraggiose andarono in Plaza de Majo, sfidando lo stato di assedio imposto dai militari che vietava a più di tre persone di riunirsi. «Azucena Villaflore­s disse: “Non possiamo più stare separate, bisogna unirsi e far sapere al mondo quel che sta accadendo”. La polizia diceva “camminare, camminare”. Fu in quel momento che nacque il movimento delle Madres de Plaza de Majo. La prima ronda non è stata Oggi a Torino alle 15,30, al Mausoleo della Bela Rosin (strada Castello di Mirafiori 148/7), nel giorno del 40° anniversar­io dalla prima manifestaz­ione delle Madri di Plaza de Mayo, Assemblea Teatro fa una lettura dal libro di Taty Almeida, Massimo Carlotto e Renzo Sicco «Orfana di figlio. I giovedì delle Madres de Plaza de Mayo», Claudiana, 2015 (prefazione di Erri De Luca, postfazion­e di Luis Sepúlveda) Francesca Barbiero, Marco Carminati, Lara Ricci In primo piano a destra, Taty Almeida in un’immagine del 2012 assieme alle Madres: reggono un grande striscione con i volti dei figli scomparsi e per i quali chiedono giustizia

intorno alla Piramide ma a Belgrano (un monumento dedicato al generale Manuel Belgrano, ndr). Si innescò l’appuntamen­to settimanal­e con le Madres che s’imponevano sempre più all’attenzione pubblica. L’8 dicembre tre di loro, Azucena, Esther Careaga e Maria Ponce de Blanco sparirono: come i nostri figli, furono buttate in mare e ritrovate sulle spiagge dell’Uruguay». La miopia del regime è pari solo alla sua brutalità: pensavano, commenta Taty, di fermarci? Non era possibile. Alla resistenza delle Madres si è affiancata quella delle Abuelas, le nonne dei neonati strappati alle prigionier­e che venivano fatte partorire e uccise, e poi consegnati a famiglie di militari (il tema del film Hijos di Marco Bechis, 2002): anziane che hanno speso una vita alla ricerca di questi nipoti privati della loro identità. «Con l’arrivo di un Governo democratic­o, quello di Raúl Alfonsín, per la prima volta i civili hanno giudicato i militari, finalmente si respirava la giustizia», si alza di un tono la voce di Taty, che pure sottolinea con ancora più enfasi la svolta compiuta da Néstor Kirchner, il presidente eletto nel 2003. «È stato lui ad aver introdotto i diritti umani come politica di Stato, ha cancellato le leggi di immunità (di cui godevano i militari dall’avvento della democrazia ancora fragile, nel 1984, ndr) e giudicato il genocidio». Insomma, si è passati dal terrorismo di Stato - fissato nelle lastre di porfido del memoriale di Buenos Aires sulle quali sono incisi i nomi di quella generazion­e cancellata - ai diritti umani di Stato.

La scorsa estate l’ombra del negazionis­mo ha però inquinato i risultati ottenuti fin qui, i processi che hanno visto la condanna dei carnefici (nessuno dei quali ha mostrato il minimo segno di pentimento, da Jorge Rafael Videla - morto in carcere a 87 anni nel 2013, dove scontava l’ergastolo - al generale Reynaldo Bignone, l’ultimo dei responsabi­li delle torture e degli assassinii condannato nel 2010 a 25 anni di prigione). Il presidente Mauricio Macri, arrivato alla Casa Rosada nel dicembre 2015, in un’intervista ha messo in dubbio il numero dei morti e desapareci­dos: «Non ne ho idea. È un dibattito in cui non ho intenzione di addentrarm­i, si tratti di novemila o trentamila » . Una dichiarazi­one che porta sulla scena politica ufficiale l’eco di alcuni simpatizza­nti dell’ex regime, secondo cui non ci fu uno sterminio ma una guerra interna. «Il presidente Macri sta tentando di eliminare la memoria storica e la nostra battaglia, noi non condividia­mo nulla di questo Governo. Lo rispettiam­o perché è un Governo costituzio­nale, ma per il resto non ha nulla di democratic­o», ha la forza di continuare Taty Almeida. La forza della disperazio­ne di chi non ha potuto elaborare il lutto e piangere un corpo. Di chi vuole giustizia, 40 anni dopo.

eliana. dicaro@ ilsole24or­e. com

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