Siamo attori senza saperlo. Ogni giorno ci caliamo in una parte e il mondo che ci circonda è il nostro palcoscenico
Caro giovane spettatore che forse sei me quando mi sono accostato per la prima volta al teatro, nel mio precedente articolo ti ho indicato cosa potresti fare per scoprire questa irripetibile forma di contatto fra gli esseri umani, una scoperta tanto più preziosa in quanto non è affatto scontata, potrebbe avvenire ma potrebbe anche non avvenire, e proprio in questa meravigliosa aleatorietà sta la bellezza e la magia dell’iniziazione ai suoi misteri. Ora vorrei tornare sull’argomento per spiegarti cosa conviene che tu cerchi in questo incontro col teatro.
È bene tu sappia che a teatro non ci vai con lo stesso atteggiamento col quale ti metteresti davanti al televisore, per passare un paio d’ore cambiando programma se quello che vedi non ti soddisfa. Il teatro richiede impegno, partecipazione. Può essere a volte divertente, ma esige sempre uno sforzo, spesso anche una certa fatica intellettuale: in cambio ti dà delle scosse interiori, ti mette di fronte a te stesso come nessun’altra disciplina artistica potrebbe fare.
A casa, a scuola ti avranno forse spiegato che il teatro si basa su una finzione, sull’azione di un attore che deve dare l’impressione di essere qualcun altro, un personaggio le cui gesta sono state scritte in precedenza da un autore. Voglio dirti che non è sempre e del tutto così. Ci sono momenti storici, ci sono culture in cui il teatro serve a far nascere sul palco delle figure fittizie, principi di Danimarca o eroine dell’antica Grecia, e tanto più bravo verrà ritenuto l’interprete quanto più sarà stato in grado di identificarsi con loro. Ma ci sono momenti storici e culture in cui il teatro viene mostrato per ciò che è, gioco di maschere, rappresentazione dichiarata, e l’attore si presenta in quanto tale alla platea per dire ciò che deve dire, per fare ciò che deve fare.
È chiaro che una certa percentuale di finzione è sempre presente quando una persona esce dalla sua esistenza di ogni giorno per apparire davanti a un pubblico, anche solo per leggere le previsioni del tempo. È se stesso, ed è insieme un’altra cosa. La finzione, però, deve essere sempre considerata comunque uno strumento, un mezzo per inquadrare qualcosa che riguarda la sua e nostra realtà, i suoi e i nostri sentimenti. Se tu vi vedrai solo la finzione, vorrà dire che ti avranno messo fuori strada.
Proprio in quanto è così indissolubilmente legato al concetto di finzione, il teatro – per un singolare paradosso - è anche vicinissimo al suo contrario, ovvero a qualcosa di simile a un’idea di totale, lampante verità. Sono due
territori strettamente confinanti, sono le due facce di uno stesso enigma. Il teatro affonda le sue radici in questa contraddizione: non c’è lettura di un libro o visione di un film o contemplazione di un quadro che ti possa dare una sensazione di verità quanto te la dà la finzione teatrale. Una verità che d’altronde è garantita e testimoniata dalla presenza fisica di chi recita, che si trova lì davanti a te, a pochi passi di distanza.
Vorrei descriverti come è stato il mio primo impatto col teatro. Avevo passato tutta la trafila di spettacoli per bambini, le marionette che mi avevano spaventato, le messinscene di fiabe che mi avevano lasciato indifferente. Poi una sera ho seguito alcune amiche che andavano a vedere i Sei personaggi in cerca d’autored i Pirandello nella celebre messinscena di una delle più grandi formazioni artistiche di quegli anni, la Compagnia dei Giovani. Non sapevo esattamente cosa mi sarebbe toccato, e ciò che ho visto mi ha lasciato letteralmente senza fiato.
Invece di una scenografia si vedevano i muri nudi del palco, le scritte che indicavano le uscite di sicurezza, le luci di servizio, le porte per raggiungere il corridoio dei camerini. Alcuni attori indossavano i panni di “attori” impegnati nelle prove di uno spettacolo, mentre altri – quelli di maggior talento - incarnavano dei personaggi che esistevano solo nelle fantasie del loro autore, che non potevano acquisire un’esistenza materiale, e che solo restando dei fantasmi della scena riuscivano a dare un senso di sconvolgente verità alle loro vicende.
In quello spettacolo vero e falso si intrecciavano di continuo, si mescolavano inestricabilmente: in esso il vero era falso e il falso era vero, di una verità tanto piena e assoluta proprio in quanto nasceva dal rapporto con la finzione. I “personaggi” erano pure apparizioni, ma,
contrapposti alle figure in carne e ossa fra le quali si erano materializzati, esprimevano delle ansie, delle passioni così autentiche e reali che pareva di trovarsi di fronte a un frammento di vita vera. Non sto parlando, ovviamente, della piccola verità delle cose quotidiane, soggetta al caso, passeggera, ma di una più alta verità dell’arte, costruita passo passo partendo dalla finzione.
La seconda rivelazione l’ho avuta anni dopo in un’arena all’aperto, il Teatro Romano di Verona, dove un grande attore di allora, Enrico Maria Salerno, recitava l’Otello. Non ho mai dimenticato le impressioni di quella sera: lui era bravo, ma all’improvviso mi ero messo a vederlo come un signore con la faccia tinta color cioccolato e dei dentini aguzzi che spuntavano come quelli di un coniglietto dei cartoni animati, che declamava parole alate muovendosi a fatica con dei pesanti gambali e un’assurda spadina di latta. Mi era parso subito chiaro che se ci si accorgeva dei gambali più che dei sentimenti espressi dal testo significava che qualcosa, in quella macchina teatrale, non funzionava più come doveva.
Quei gambali di cuoio saranno stati bellissimi, come bellissimi possono essere certi costumi, certi apparati scenografici, certi effetti di luce. Ma bada a non cascarci, mio giovane amico: se queste ricche decorazioni servono a sviare la tua attenzione da ciò che effettivamente viene fatto e viene detto, significa che ti stanno ingannando. Se diventano più necessari dell’intima verità delle azioni degli attori, significa che ti stanno portando fuori strada. È meglio, credimi, uno spettacolo disadorno, ma mosso da una vera esigenza di comunicare, che uno spettacolo scintillante ma vuoto, fatto solo per buttare fumo negli occhi.
Diffida di un attore che mostra troppo il
proprio talento: si fa meno fatica ad assumere atteggiamenti plateali che a cercare stati d’animo più profondi. Il bravo attore è quello che fa in modo di non mostrare che sta recitando. Diffida dello sfarzo, serve spesso a coprire la mancanza di idee. Diffida di chi usa il teatro per trasmettere delle opinioni precostituite: il teatro serve a suscitare dubbi, inquietudini, non a imporre dei punti di vista fissati una volta per sempre. Coltivare dubbi non contrasta con la ricerca di verità: solo attraverso il dubbio si approda a una propria verità personale e comunque soggettiva.
Non aspettarti di uscire sempre dal teatro completamente appagato: spesso gli spettacoli che lasciano davvero una traccia sono quelli che agiscono dentro lentamente, che durano nel tempo, costringendoti a pensarci e ripensarci. Guarda con sospetto gli spettacoli che non ti inducono a porti delle domande: stanno mancando alla loro funzione. Non lasciarti abbagliare da un teatro che usa risorse di oggi per raccontare storie di ieri: non è un Amleto in motocicletta che può far meglio capire quanto i suoi interrogativi, le sue contraddizioni possano essere vicini alla sensibilità attuale.
Ricorda che nel teatro il bello e il brutto sono categorie relative, opinabili. Ciò che conta davvero è la sincerità delle intenzioni con cui ci si presenta davanti alla platea. È la necessità, e vorrei dire l’urgenza, della materia che le si offre. Senza di essa il teatro si riduce a un superfluo esercizio di narcisismo. Distinguere una sincerità vera da una sincerità artefatta, di maniera, richiede occhio, orecchio e una lunga esperienza: ma se vorrai frequentare non occasionalmente i teatri, sono proprio le capacità che dovrai cercare a poco a poco di acquisire.