Ap ologia del lavoro ben fatto
Alla vigilia della Festa dei lavoratori viene da chiedersi: il lavoro, o meglio l’etica del lavoro, è di destra o di sinistra? Per Luciano Canfora il quesito è inutile, buono solo per «gli infelici sacerdoti del politicamente corretto». Fine della discussione, ma inizio del fulminante pamphlet prefato da Canfora, appunto: Un messaggio per García di Elbert Hubbard (1856-1915), scritto «una sera dopo cena, in una sola ora. Era il 22 febbraio del 1899».
Quella minuta e febbricitante apologia del lavoro – del lavoro ben fatto – divenne nel giro di qualche anno un caso editoriale internazionale, vendendo più di 40 milioni di copie in 37 lingue diverse. In Italia il libello è stato ristampato recentemente da Utet con un ricco corredo a margine: oltre al commento di Canfora, compaiono infatti un breve excursus storico, che inquadra la vicenda del misterioso García, e un esilarante ritratto dell’autore, «tra Bartleby e Stachanov», firmato da Giuseppe Scaraffia, che ripercorre l a picaresca biografia di Hubbard fino alla morte altrettanto picaresca a bordo del Lusitania.
Il libretto, delizioso, è costruito a scatole cinesi, perciò sarà bene andare in ordine cronologico: nel 1898 la Spagna è in guerra con gli Stati Uniti d’America. Questi ultimi capiscono subito che, per vincere, hanno bisogno di allearsi con la guerriglia antispagnola a Cuba, guidata dal generale Calixto García: da lì la necessità di comunicare con lui, nascosto tra le montagne dell’isola, inviandogli il famigerato «messaggio». La delicata missione viene affidata a tale Andrew Summers Rowan, il quale, senza fiatare, senza chiedere spiegazioni né aiuto né dettagli, recapita in una manciata di settimane la lettera a García, che accetta di buon grado di collaborare. La guerra dura appena quattro mesi: inutile dire che vinsero gli americani.
Il silenzioso e ligio Rowan diventa così lo stereotipo del lavoratore modello: è integerrimo ma non ottuso, diligente ma non pedante, efficace ma non vanaglorioso. «Svolgi il tuo lavoro con tutto il cuore e avrai successo – c’è così poca concorrenza»: a lui si rifà Hubbard nel tessere l’elogio dell’operosità, della resilienza, dell’obbedienza, della disciplina, dello «spirito di iniziativa: cioè fare la cosa giusta senza che nessuno ve lo chieda».
Con Rowan, Hubbard condivide certo lo spirito di iniziativa, l’intraprendenza, l’imprenditorialità: «Autodidatta, libero pensatore e femminista, Elbert si era rivelato fin dall’inizio un grande lavoratore, qualità che mitigava il suo egocentrismo e la sua turbolenza», commenta Scaraffia. «Dandy e profeta» Hubbard fu commerciante, capitano d’industria, polemista, giornalista nonché fondatore della Roycroft, una comunità prima ancora che un’azienda, di rilegatori, illustratori, fonditori, incisori, conciatori: una “factory” di creativi (si direbbe oggi pomposamente) che produceva mobili e chincaglierie, ma all’occorrenza si trasformava in casa editrice, scuola, campus di artigiani, fattoria, attrazione turistica e persino in albergo.
Nel 1915 Hubbard si imbarcò a New York sul Lusitania: stava andando in Germania a intervistare nientemeno che l’imperatore Guglielmo, ma il transatlantico fu colpito anzitempo da un sommergibile tedesco. Elbert decise di rimanere a bordo, affondando con la moglie chiuso in cabina. «L’eroe è un uomo che fa il suo lavoro», e «con stile» il nostro eroe portò a termine anche l’ultimo dei suoi lavori: congedarsi dal mondo.
Elbert Hubbard, Un messaggio per García, Utet, Milano, pagg. 96, € 10