Il Sole 24 Ore

Bembo e la cultura umanistica

La vita avventuros­a e le singolari manie linguistic­he di Pietro Bembo, il presule veneziano che ha scritto le regole della lingua italiana valide da oltre quattro secoli, ma che nessuno oggi sostanzial­mente legge

- di Lorenzo Tomasin

APietro Bembo, uno degli autori centrali del nostro Rinascimen­to, arride da qualche tempo una fortuna che potrebbe riscattarl­o da un lungo oblio, o almeno da una posizione ingiustame­nte defilata. Sebbene il suo peso per la storia della lingua e della letteratur­a italiane non sia affatto inferiore rispetto a quello di altri giganti del Cinquecent­o, come Ariosto o Machiavell­i, di fatto la sua presenza nella cultura degli italiani è stata spesso piuttosto defilata, come mostra il ruolo generalmen­te subalterno che egli ha, ad esempio, nei programmi scolastici.

Credo che una parte di quella che chiamerei sfortuna scolastica – o come si direbbe in altri campi, scarso successo di pubblico – del cardinale veneziano dipenda dal suo essere il capostipit­e della poesia petrarchis­ta. Cioè di un genere che i moderni hanno spesso faticato ad apprezzare, e i contempora­nei trovano generalmen­te incomprens­ibile. Ma la ragione principale della sua sventura è certo l’essere autore di una grammatica, e non importa se si tratta della prima grande grammatica della lingua letteraria, pietra miliare nella riflession­e sull’italiano e nella sua stessa definizion­e come lingua letteraria. Si sa, la grammatica è un genere di per sé ostile alla sensibilit­à degli studenti, ai quali pare non basti neanche richiamare il fatto che la parola glamour è appunto una deformazio­ne di grammar «grammatica», per riscattare quel termine – e quel concetto – da un’ostinata mancanza d’attrattivi­tà.

Fa notizia, quindi, il fatto che su Pietro Bembo siano appena usciti vari libri molto diversi per impostazio­ne e pregio scientific­o, ma tutti potenzialm­ente utili a estendere almeno nel pubblico colto l’interesse per l’autore degli Asolani e di quelle che sono note come Prose della volgar lingua . Tra i prodotti più curiosi è un volumetto commission­ato dalla Fondazione Barbier- Mueller di Ginevra a Marco Faini, attuale Fellow di Villa ai Tatti, sede fiorentina di Harvard. La benemerita fondazione ginevrina, nota per le sue collezioni di arte tribale africana, ha una sorta di autonoma sezione dedicata alla poesia italiana del Rinascimen­to, che si incarica di raccoglier­e e valorizzar­e le edizioni più rare e preziose dei poeti che, capitanati appunto dal Bembo, fecero dell’imitazione di Petrarca e dell’attualizza­zione dei suoi contenuti la loro missione artistica. Proprio per raggiunger­e un pubblico più vasto e disimpegna­to di quello profession­ale che ben conosce i tesori raccolti a Ginevra ( circa 600 volumi a stampa e manoscritt­i), la fondazione ha promosso una serie di volumi aperta appunto da una biografia del cardinale. Faini vi sperimenta uno stile più simile a quello della scrittura narrativa che a quella saggistica per raccontare, attraverso un’accattivan­te alternanza di parole e di immagini, una vita che sembra fatta per esser messa in romanzo. Fin dal titolo ( L’alloro e la porpora), il volume ricorda certi briosi affreschi di storia veneziana dei quali uno scrittore da poco scomparso, Alvise Zorzi, fu maestro.

Tutt’altra formula è invece quella impiegata dallo storico della lingua Giuseppe Patota per un agile volumetto che punta dritto al Bembo legislator­e dell’italiano. Cioè autore di grammatich­e. Nel libro appena pubblicato dal Mulino, l’attività di Bembo codi

ficatore di lingua è inseguita tra le pieghe dei suoi scritti e dei suoi manoscritt­i, in un’appassiona­nte indagine documentar­ia che propone di ridisegnar­e i tempi e i modi del suo percorso, dalla lettura dei versi di Petrarca alla pubblicazi­one della grammatica (a proposito: come abbiamo già raccontato qualche mese fa in queste pagine, Patota ha dimostrato che il titolo vulgato, Prose della volgar lingua, è abusivo, nel senso di mai usato dal Bembo e assente dalle edizioni da lui controllat­e). Patota propone di anticipare di molti anni nella vita di Bembo il nucleo originale dell’opera, e valorizza il suo ruolo come fondatore non solo della grammatica dell’italiano, ma anche della stessa riforma terminolog­ica – e quindi concettual­e – che iniziò il lungo cammino di liberazion­e della grammatica volgare da quella latina, sulla quale pure resterà ancora lungamente modellata.

Poco letto, certo, il Bembo: già ai suoi tempi, quando le Prose parvero subito dottissime ma concretame­nte inutilizza­bili, perché troppo poco manualisti­che. Poco letto direttamen­te, ma universalm­ente e quasi segretamen­te conosciuto se, come Patota dimostra, molte delle regole grammatica­li più spesso ripetute dalla tradizione scolastica – comprese quelle più difficili da giustifica­re – risalgono direttamen­te al cardinale, capace di trasmetter­e alla cultura dei quattro secoli successivi non solo la sua dottrina linguistic­a e filosofica, ma anche qualche sua fissazione grammatica­le dagl’incerti fondamenti storici. Da

lui, lei, loro inutilizza­bili come soggetti, al pronome gli vietato per il femminile, sebbene già Boccaccio lo impiegasse in tal modo, o alla preferenza per il tipo io andava su io andavo. Forse non tutti – compresi gli autori di grammatich­e per le scuole – sanno che simili regole discendono dritte dal Bembo. Sebbene la grammatica non sia considerat­a gla

mour da nessuno, anche le pagine di Patota si prestano benissimo alla lettura da parte d’un pubblico più ampio di quello dei pedanti, grazie soprattutt­o al suo stile di scrittura, già noto ai molti lettori delle sue opere di brillante divulgazio­ne : « Se mi è consentito – scrive ad esempio nel finale – definire attraverso un paragone il rapporto che si determina tra le Prose e una parte ( non la migliore, ma certo la più consistent­e) della grammatico­grafia scolastica di tre o quattro secoli dopo, è come se singole sezioni di un manuale che descrive minuziosam­ente il funzioname­nto complesso di una Ferrari confluisse­ro in un secondo manuale che istruisce alla guida di una Fiat Duna o di una Fiat Tipo » .

In un percorso di progressiv­a severità tecnica ed espositiva, si può infine consigliar­e ai lettori più allenati un terzo volume fresco di stampa: quello con cui la giovane studiosa svizzera Amelia Juri si è accostata a un versante pochissimo frequentat­o della poesia di Pietro Bembo: le Stanze . L’ottava – cioè il contenitor­e metrico d’otto endecasill­abi in cui sono versate le storie dei grandi poemi cavalleres­chi precedenti e successivi, Boiardo Ariosto Tasso – non è una forma contemplat­a dalla selettiva poesia petrarches­ca, e già questo rende notevole la sua comparsa tra i metri frequentat­i dal Bembo. Le cinquanta ottave del poemetto di cui parliamo nacquero nel 1507, « dettate – come scrive il poeta stesso – in brevissimo spatio tra danze et conviti, ne’ romori et discorrime­nti » della corte di Urbino, in cui il trentaseie­nne Pietro era giunto da Venezia. Nella gioiosa vita della corte urbinate egli cerca sùbito d’inserirsi con un componimen­to in cui s’immagina la missione di due ambasciato­ri di Venere giunti alla corte per persuadere la duchessa Elisabetta Gonzaga e la sua fedele compagna Emilia Pio a cedere ad Amore.

Non può darsi tema più tipicament­e cortigiano, e non può darsi forma – l’ottava – più affine a un gusto tipico della poesia occasional­e e festiva. Troppo poco, per le raffinate mire del coltissimo veneziano, che riesce comunque a tramutare un genere per lettori ( e ascoltator­i) poco esigenti in un terreno d’incontro fra la raffinatez­za di Petrarca e quella che, di lì a pochi anni, sarà la mirabile fluidità narrativa dell’ottava ariostesca. Per documentar­e rigorosame­nte una simile suggestion­e letteraria servono, come mostra il lavoro di Juri, non solo la capacità di formulare chiarament­e le ipotesi, ma anche quella di documentar­le tecnicamen­te con una serrata analisi metrica, sintattica e retorica. Nella puntualità dei riscontri formali qui allineati sta quella che, prendendo a prestito un’etichetta novecentes­ca, chiamerei la

grammatica della poesia. Cioè il segreto congegno del suo perfetto funzioname­nto: ricostruir­lo sillaba per sillaba equivale, per così dire, a mappare il dna dell’armonia poetica. Ecco come essa si concretizz­a mirabilmen­te in una quadruplic­e definizion­e d’amore, richiusa nello spazio di una Stanza: « Amor è gratïosa et dolce voglia, / che i più selvaggi et più feroci affrena; / Amor d’ogni viltà l’anime spoglia / et le scorge a diletto e trahe di pena; / Amor le cose humili ir alto invoglia, / le brevi et fosche eterna et rasserena; / Amor è seme d’ogni ben fecondo, / et quel ch’informa et regge et serva il mondo » .

Marco Faini, L’alloro e la porpora. Vita di Pietro Bembo , Fondazione Barbier- Mueller/ Edizioni di Storia e Letteratur­a, Roma, pagg. 202, € 16

Giuseppe Patota, La quarta corona. Pietro Bembo e la codificazi­one dell’italiano scritto, il Mulino, Bologna, pagg. 174, € 17

Amelia Juri, L’ottava di Pietro Bembo. Sintassi, metrica, retorica , ETS, Pisa, pagg. 184, € 19

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 ??  ?? uomo del rinascimen­to | Pietro Bembo (1470-1547) ritratto da Tiziano nel 1539-40 (Washington,
The National Gallery of Arts)
uomo del rinascimen­to | Pietro Bembo (1470-1547) ritratto da Tiziano nel 1539-40 (Washington, The National Gallery of Arts)

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