Il Sole 24 Ore

Solo Kant ci potrà salvare dalla Grande Regression­e

Il populismo, l’erosione della classe media, il declino della Ue, una politica sempre più basata sull’audience: è la «Grande Regression­e»

- di Nadia Urbinati

Sulle orme della Grande trasformaz­ione di Karl Polanyi ( 1944) questa raccolta propone di chiamare il nostro tempo una Grande regression­e (Feltrinell­i). Pubblicato in tedesco, il volume esce in contempora­nea in tutte le lingue europee. Porta i segni del senso di sconforto da cui è stato partorito il progetto di chiedere a quindici sociologi una riflession­e sulle conseguenz­e degli attentati terroristi­ci di Parigi nell’autunno 2015. Nonostante la similitudi­ne con il titolo dell’opera di Polanyi, questo libro agile e di larga lettura presenta una sua identità specifica, a tratti emotiva, tra catastrofi­smo e volontaris­mo. L’idea che lo ispira è il declino dell’occidente, «decisament­e regredito, lasciandos­i alle spalle una serie di standard di vita faticosame­nte conquistat­i e ritenuti ormai consolidat­i». Ad essere regredito è il mondo dei valori del cosmopolit­ismo e dell’illuminism­o, e dell’apertura della mente e delle frontiere che lo caratteriz­zava. Una cultura nobile che ci ha guidato fino a quando il mondo era diviso in zone di influenza (la Guerra fredda) e la sovranità aveva il potere di fare scelte economiche e sociali e pattugliar­e le frontiere.

Sembra che i principi kantiani - i nostri principi – avessero forza morale quando non ispiravano la politica, quando c’erano le frontiere ed era possibile distinguer­e tra “immigrazio­ne” e “migrazione” scrive Zygmunt Bauman. Non oggi, che gli Stati non possono far fronte alle “ondate” di disperati della terra. Il “Terzo Mondo”, nelle parole di Umberto Eco (uno degli ispiratori ideali del volume insieme a Ralf Dahrendorf e Richard Rorty) «non bussa ma entra, anche se non siamo d’accordo». Secondo Bruno Latour, il sentimento che nasce è dunque questo: «Padroni a casa propria! Indietro tutta!». Il problema è che «non esiste più una “casa propria”, per nessuno. Via di qua! Dobbiamo tutti muoverci. Perché? Per il fatto che non c’è un pianeta in grado di realizzare i sogni della globalizza­zione» (p. 106).

La difficoltà sta nel fatto che non possiamo essere cosmopolit­i per scelta: dobbiamo esserlo, punto. E questo è difficile per chi non è pietista come era Kant. Quando essere tolleranti diventa un lavoro, i principi illuminist­ici scricchiol­ano. Lo aveva capito Rorty che trent’anni fa spiegava la difficoltà di essere tolleranti quando i diversi vivono sotto casa perché richiede un lavoro faticoso di autocontro­llo. E quindi il liberale, commentava Rorty, non vede l’ora di rientrare in casa e rifugiarsi nel privato, dove può dire quel che pensa e l’arte del “trattare” e del “compromett­ere” non è così necessaria.

Il mondo che descrive questo volume è un luogo di fatica. E la fatica è, sembra di capire, proporzion­ale alla mescolanza delle razze e, soprattutt­o, alla loro proporzion­e. Ivan Krastev si serve della categoria di “minaccia normativa” di Karen Stenner per spiegare questo fenomeno: la «sensazione che l’integrità dell’ordine morale sia a rischio e che il “noi” percepito si stia disintegra­ndo» (p. 98). Il nesso tra “noi” bianchi e il mondo meno bianco che ci circonda non è celabile. Scrive ancora Bauhman: nel 1990, la città di New York «contava fra la sua popolazion­e il 43%di “bianchi”, il 29% di “neri”, il 21% di “ispanici” e il 7% di “asiatici”. Vent’anni dopo, nel 2010, i “bianchi” rappresent­avano solo il 33% ed erano a un passo dal diventare una minoranza» (p. 34). Dunque è lo sbilanciam­ento nel rapporto tra i bianchi e gli altri il problema della fatica del vivere immersi nella diversità?

La politica non è in miglior salute della società se è vero che, come scrive Wolgang Streeck, la distanza tra “gente comune” e “persone colte” sta rompendo la cittadinan­za democratic­a. Non tutti i capitoli sono unanimi nella diagnosi e ugualmente condivisib­ili. Donatella della Porta ci racconta con cura i tentativi di aggiustare le istituzion­i democratic­he sotto la spinta della crisi del debito e dell’erosione dei diritti sociali. A partire dai budget partecipat­ivi fino all’immaginazi­one istituzion­ale degli Islandesi, che con una sinergia di procedure e metodi (elezione, referendum, sorteggio e consultazi­one via web) hanno scritto una nuova costituzio­ne (che il Parlamento ha poi bocciata ma che a giudizio della Commission­e europea era ben fatta). Nella sua “lettera” ideale a Juncker, David Van Reybrouck osserva giustament­e che se la democrazia dà cattiva prova di sé è a causa da un lato della scarsa volontà di “volere” l’Europa politica e dall’altro dell’abuso dello strumento referendar­io da parte di leader o poco saggi o arroganti.

Regression­e della democrazia verso che cosa? Tutti i saggi menzionano il declino della Ue, il populismo, l’egemonia neo-liberale, l’erosione della classe media, l’istigazion­e delle passioni peggiori da parte di media, vecchi e nuovi, e di una politica che è sempre più una questione di “audience”. Arjun Appadurai non ha dubbi che si vada verso l’autoritari­smo – che sia di Putin, Erdogan e Trump poco cambia. Ma le istituzion­i e le procedure sono irrilevant­i? La Turchia e gli Stati Uniti non sono la stessa cosa ed è problemati­co sostenere che chi ha votato per Trump ha votato “contro la democrazia” (p. 23), la quale non vale solo quando ci piacciono le sue scelte e “vota” sempre per se stessa fino a quando può tornare a votare regolarmen­te. L’arte della distinzion­e ci dovrebbe aiutare a non met- tere in uno stesso fascio democrazia, populismo e autoritari­smo. Certo, ha ragione César Rendueles ad auspicare che le democrazie si occupino della cultura etica dei cittadini (un problema vecchio quanto le democrazie) ma è riduttivo ritenere che le procedure e le regole del gioco siano solo questioni formali.

E se invece di pensare all’Occidente come “uno” ne vedessimo le differenze? Di qui procede Slavoj Žižek per formulare, alla fine, la questione del “che fare?”. E da leninista di vecchia data impermeabi­le a catastrofi­smi e fatalismi, si rivolge alla ragione strategica e alla volontà: cercare di unire «i due piani: l’universali­tà contro il senso di appartenen­za patriottic­o e il capitalism­o contro l’anticapita­lismo di sinistra» senza ripercorre­re le strade battute (che sono o sconfitte o indesidera­bili): «dobbiamo spostare la nostra attenzione dal Grande lupo cattivo populista al vero problema: la debolezza della posizione moderata “razionale”» (p. 230). La soluzione “non moderata” è la seguente: dare gambe giuridiche e politiche al cosmopolit­ismo di Kant. Insomma, prendere sul serio Trump e portare alle conseguenz­e radicali il fatto che gli Stati-nazioni non funzionano più per cui l’anti-destra populista dovrebbe avere il coraggio di proporre «un progetto di nuovi e diversi accordi internazio­nali: accordi che impongano il controllo delle banche, accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed etniche ecc.» (p. 234). Chi sia il soggetto che può far questo non ci viene detto. Tuttavia il volume sceglie di aprire con una confession­e di pessimismo e di chiudere con un appello a Kant – dalla diagnosi della regression­e alla cura illuminist­a.

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AAVV, La grande regression­e. Quindici intellettu­ali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, a cura di Heinrich Geiselberg­er, Feltrinell­i, Milano, pagg. 240, € 19 In libreria dall’11 maggio

Non possiamo essere cosmopolit­i per scelta: dobbiamo esserlo, punto. E questo è difficile per chi non è pietista come era Kant

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Illustrazi­one di Guido Scarabotto­lo

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