Il Sole 24 Ore

Tra manifattur­a e innovazion­e asse per competere

- di Aldo Bonomi bonomi@aaster.it

Tempi di elezioni nella fragile Europa. La politica si polarizza sul dilemma Europa si Europa no, con tanto di Brexit entrata nel vivo. Mi pare utile un ragionare pacato partendo dai processi reali del nostro sistema produttivo e del suo posizionam­ento nell’Europa che verrà. Convinto come sono da tempo che occorre ragionare sulle differenze non essendo noi né capitalism­o anglosasso­ne, né capitalism­o renano, né capitalism­o alla francese, né capitalism­o anseatico dell’area baltica.

Schematizz­ando gli ultimi dati del Centro Studi Confindust­ria emerge un panorama di imprese fatto di un 20% internazio­nalizzato e connesso ai flussi e un 60% di imprese ed impresine che sono la nostra manifattur­a di prossimità, evoluzione dei distretti e soprattutt­o orientata al mercato domestico. Inoltre, la crisi ha lasciato sul terreno un 20% di attività economiche che non ce l’hanno fatta. Guardando alla punta della piramide produttiva appare l’innovazion­e, la robotizzaz­ione, il lavoro ibrido che tiene assieme il sincretism­o blue collar e withe collar e la capacità di incorporar­e informazio­ni e logistica per raggiunger­e l’utente cliente.

Quelli che stanno in mezzo nella prossimità di territorio, che potremmo definire usando categorie della società i ceti medi della manifattur­a di prossimità in cambiament­o selettivo, cercano di agganciare le filiere dell’eccellenza ed è aperto il dibattito sulla loro capacità di innovarsi con un balzo nel divenire makers delle stampanti 3D. Chi non ce la fa è destinato, percorso già in atto, ad andare ad ingrossare un neosommers­o carsico con scarse prospettiv­e di riapparire.

Questo quadro non interroga solo Confindust­ria ma il sistema delle rappresent­anze nel suo complesso. E pone anche a proposito di Europa il riposizion­arsi nella geoeconomi­a e nella geopolitic­a che viene avanti. Ci è utile un rimando a Giorgio Fuà che ha sempre ricordato che ogni Paese che entra nell’agone della competizio­ne internazio­nale non può scegliere di espandersi in settori già coltivati da Paesi leader ma dovrà coltivare ed inventare percorsi complement­ari allo sviluppo, in questo caso dell’Europa in costruzion­e geoeconomi­ca e geopolitic­a. Dovremo farlo avendo chiaro che si è chiuso un ciclo, quello del territorio al lavoro che cresceva su se stesso.

Il mondo della piccola impresa, dei distretti che di quel ciclo è stato figlio e protagonis­ta, è a un bivio che riguarda il grande invaso intermedio delle nostre imprese. Mi pare urgente avviare nei territori una riflession­e sul modello di sviluppo. Per capire che la nostra antropolog­ia da capitalism­o di territorio rimanda al nodo gordiano che l’economia regge se rimane espression­e degli obiettivi di sviluppo di una società. Per un’azienda globalizza­ta il territorio è rete lunga di internazio­nalizzazio­ne e di rapporto con la conoscenza globale in rete. Il territorio è insieme simultanei­tà e prossimità ed è oltre la sola dimensione del locale. Per il resto del capitalism­o molecolare è ancora territorio locale di sola prossimità.

È possibile sviluppare un discorso pubblico nelle nostre piattaform­e produttive in grado di trovare una via che consenta di non contrappor­re i simultanei e i prossimi e mantenersi connessi con il salto produttivo e tecnologic­o che decliniamo Industria 4.0? Da qui l’esigenza di ragionare e proiettare nel futuro, anche per trovare spazio in Europa, il concetto che viene dalla nostra storia di capitalism­o intermedio. Che ha una duplice natura: descrittiv­a, provando a disegnare un’evoluzione possibile del capitalism­o di territorio; normativa, provando a delineare un modello valoriale che contiene un’idea di nuovo equilibrio tra economia e società.

Ciò che sosteneva allora Giorgio Fuà è ancor più valido oggi per il nostro tentativo possibile di collocarci in Europa nella contaminaz­ione necessaria tra manifattur­a ed innovazion­e senza perdere la specificit­à dell’essere capitalism­o di territorio. É infatti capitalism­o intermedio come esito della confluenza tra le due vie di sviluppo del capitalism­o italiano. Quello del capitalism­o delle company town e della produzione di massa e quello della specializz­azione flessibile dell’industrial­izza-

IL MODELLO Smart city e smart land, evitando la trappola delle due velocità, che può farsi spaccatura geoeconomi­ca

zione diffusa. Capitalism­o intermedio perché, caratteriz­zato dalla compresenz­a di modelli diversi: ciò che resta della grande impresa, la media impresa trainante, la piccola impresa e la terziarizz­azione nelle smart city e nelle smart land dei distretti. Un disegno plurale, differenzi­ato, caratteriz­zato da equilibrio e dal mettersi in mezzo tra società ed economia rispetto ai processi di polarizzaz­ione, di fratture, tra le punte alte dell’innovazion­e dei flussi e le tendenze del nuovo sommerso carsico.

Questa medietà operosa applicata al sistema impresa, che ha l’ambizione di portare tutti in Europa e di occuparci dei tanti che non ce l’hanno fatta, ha implicazio­ni che vanno ben oltre l’economia. È una politica industrial­e e di impresa che tiene assieme negli investimen­ti per innovare le città e i territori. Sarebbe un errore pensare solo ad alcune aree metropolit­ane inserite nei poli europei ed abbandonar­e la vibratilit­à operosa dei territori. Occorre fare smart city e smart land. Evitando la trappola delle due velocità, già presente nella polarizzaz­ione delle imprese che può farsi spaccatura geoeconomi­ca: piattaform­e a nord inserite nell’Europa del burro e il resto nell’Europa dell’olio o ancor peggio, di un Mediterran­eo abbandonat­o da cui rinserrars­i. Forse con un po’ di orgoglio, di identità e storia, possiamo pensare che annaspiamo spesso come i più piccoli dei grandi, ma siamo anche i più grandi dei piccoli ed abbiamo da portare in Europa storia ed esperienza di un saper fare impresa che tiene assieme società ed economia. Nel dibattito attuale Europa sì, Europa no, forse ci è utile sperare in un modello produttivo di riposizion­amento geoeconomi­co del nostro fare impresa né liquido, né rigido e centralizz­ato, ma caratteriz­zato da un forte capitale sociale necessario per reggere la competizio­ne.

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