Il Sole 24 Ore

La storia dell’acciaio che è diventata farsa

- C.G.

Araccontar­la ora quella dell’ultimo salvataggi­o dell’ex Lucchini pare una farsa. Tutto ha inizio il 21 dicembre del 2012, quando l’allora ministro Corrado Passera nomina commissari­o straordina­rio Piero Nardi, un ex manager della siderurgia di Stato, affidandog­li il compito di trovare un acquirente per un’azienda che aveva consegnato i libri contabili al Tribunale di Livorno.

Per un anno e mezzo Nardi si adopera per evitare il cosiddetto spezzatino degli impianti di Piombino e trovare un futuro occupazion­ale ai 2.200 dipendenti dell’ex Lucchini.

Il suo compito è indubbiame­nte arduo. Anche perché a farsi avanti per Piombino sono in pochi. E quei pochi vengono immediatam­ente accolti con entusiasmo da politici e sindacalis­ti anche se assolutame­nte inadatti.

Quando arriva il giordano Khaled Jamil Ali Al Habahbeh, la cui azienda era stata costituita a Tunisi pochi mesi prima con un capitale di appena 1,5 milioni di dollari, tutti - dalla Fiom al governator­e della Toscana Enrico Rossi - si fanno ammaliare dalle sue promesse di salvare i posti di lavoro costruendo hotel a 5 stelle e centri congressi. «Sulla carta è il miglior progetto auspicabil­e, quello che rispecchia tutti i desiderata delle istituzion­i e dei lavoratori», dichiara Rossi dopo averlo incontrato.

Al team di Nardi basta invece fare alcune ricerche in internet per scoprire che il giordano era stato oggetto di un mandato di cattura per truffa e quindi sbattergli la porta in faccia.

L’unica proposta concreta arriva nel 2014 da Sajian Jindal, del gruppo siderurgic­o indiano Jsw. Il problema è che a Jindal interessan­o solo i tre laminatoi. Il semiprodot­to conta di produrlo in India, dove ovviamente costerebbe molto meno. Quindi propone di dare occupazion­e solo a 7/800 persone (chiedendo anche per quelle ingenti contributi statali).

«Ho cercato di convincere Jindal a fare almeno un forno elettrico a Piombino. Ma lui temeva che l’investimen­to sarebbe stato troppo alto», ricorda l’ingegnere Motto, all’epoca consulente tecnico del commissari­o Nardi.

La proposta di Jindal ovviamente non piace né a sindacati né a politici locali e regionali (Rossi era sotto elezioni), che anziché sostenere l’apertura di un negoziato concreto si buttano nelle braccia del miliardari­o del Sahara, Issad Rebrab. Come diverrà drammatica­mente evidente, l’algerino non sa nulla di acciaio. E forse neppure d’imprendito­ria, visto che, a detta di suoi ex dipendenti, non ha mai capito l’importanza del circolante per finanziare le attività dei suoi impianti.

Le sue promesse faraoniche hanno un impatto deflagrant­e e riescono a convincere anche Nardi e il Governo anche se alla prova dei fatti, come aveva ammonito il nostro giornale, il suo si rivela un miraggio.

L’ironia è che la scelta dell’algerino ha avuto per i contribuen­ti un costo non dissimile da quello che avrebbe potuto avere il piano di Jindal. Il Sole 24 Ore ha infatti appurato che, nonostante i suoi piani fossero appunto faraonici anche dal punto di vista occupazion­ale, l’imprendito­re algerino non ha mai pagato stipendi a molte più persone di quante sarebbero state occupate da Jindal. Con una differenza sostanzial­e: se adesso fossero parte del gruppo Jsw, probabilme­nte i laminatoi sarebbero tutti e tre attivi.

Da quando Rebrab ha rilevato l’azienda, il 1º luglio 2015, oltre mille dipendenti sono stati tenuti in Cassa integrazio­ne per 15 mesi. E quando in base agli accordi di vendita Aferpi ha dovuto assumere tutti i dipendenti dell’ex Lucchini, li ha messi immediatam­ente in solidariet­à. Dove sono rimasti fino a oggi.

Al Sole 24 Ore risulta che tra il genna-

NEGLI ULTIMI 22 MESI I dipendenti Aferpi hanno fatto quasi 2 milioni di ore di solidariet­à per un costo complessiv­o di 13,2 milioni a spese delle casse dell’Inps

io 2016 e il febbraio 2017, Aferpi abbia comunicato all’Inps 1.912.746 ore di solidariet­à, per le quali ha ricevuto 13.289.859 euro. Provenient­i appunto dalle casse dell’Inps e non di Rebrab.

Quel piano di solidariet­à scadrà però a giugno. E sebbene Aferpi abbia chiesto una proroga di altri due anni, il problema è che, da quel che ci è stato detto, con un singolo laminatoio in funzione, dal 1º gennaio 2017 in Aferpi lavorano meno di 350 persone.

Poiché la percentual­e minima di lavoratori attivi richiesta dai piani di solidariet­à è del 40% dei dipendenti, c’è insomma il rischio che manchino le condizioni per rinnovare quell’ammortizza­tore. Il che farebbe cadere Piombino nel caos sociale.

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