E se tornassimo alle arti liberali?
La grammatica, di cui Bembo fu sommo esperto, era una delle famose “arti liberali”, che costituivano il curriculum studiorum che già nel Medioevo permetteva l’accesso agli studi universitari. Le arti liberali, divise in “arti del trivio” (grammatica, retorica e dialettica) e “arti del quadrivio” (aritmetica, geometria, musica e astronomia), richiedevano un’attività prettamente intellettuale. Esse condensavano il sapere che ogni uomo libero avrebbe dovuto padroneggiare e si contrapponevano alle “arti meccaniche”, che invece presupponevano un’attività manuale e per questo venivano considerate degradanti. Formalmente gli umanisti adottarono questo sistema delle arti, ma progressivamente lo modificarono, sino a che esso non fu completamente cancellato quando la nuova scienza sperimentale pretese un posto centrale nei curricula scolastici. Anche le “arti meccaniche” vennero nobilitate nei secoli successivi caratterizzati da uno stretto rapporto tra I filosofi e le macchine (per dirla conil tito lodi un famoso libro dello storico delle idee Paolo Rossi), senza mai dimenticare, anzi accentuandone i caratteri, lo spirito critico e l’apertura mentale che le arti liberali avevano impresso nella cultura europea fin dal Medioevo, fino al definitivo abbandono del principio di autorità senza il quale non avremmo visto nascere le nuove scienze fisiche e meccaniche, la rivoluzione industriale e perfino l’idea moderna di democrazia.
Tra i fattori che contribuirono a modificare il sistema delle arti liberali uno dei più importanti fu il rilievo che assunse la filologia, la disciplina che permetteva di ricostruire le forme e i contenuti dei libri antichi. Il senso di questo recupero, però, non fu meramente libresco: nella sapienza dei classici gli umanisti videro infatti la possibilità di un mondo nuovo. Nello studio dei poeti, dei filosofi, degli storici e degli scienziati greci e romani, gli umanisti trovarono un serbatoio di idee antiche, ma allo stesso tempo potenzialmente innovative. Si pensi all’idea che i singoli individui possono, almeno in parte, determinare il proprio destino; al recupero della grande scienza antica, che sarebbe stata decisiva per avviare la rivoluzione scientifica moderna; alla riflessione etico-politica che fu segnata sia dal pensiero di Aristotele sia da quello degli stoici. L’articolo di Lorenzo Tomasin pubblicato in questa pagina è un ulteriore tassello del mosaico che sulla Domenica andiamo componendo per suscitare una riflessione pubblica sull'eredità che oggi la nostra cultura, e in primis il sistema educativo e l’organizzazione dei saperi e della ricerca, possono raccogliere da una tradizione umanistica immune dalla falsa contrapposizione tra umanesimo e scienza. Gabriele Pedullà ce lo ha ricordato il 26 marzo mostrando, attraverso le tesi di Ronald G. Wiit, che l’umanesimo nacque in Italia con questi tratti perché, a differenza che nel resto dell'Europa, fin dal ’200 l’insegnamento universitario era libero, laico e non monopolizzato dal mondo religioso.
E Lucio Russo ci sta proponendo, in una serie di articoli, una rilettura del mondo antico proprio alla luce del mondo moderno (mostrando, nell’articolo uscito il 9 aprile, il debito che la newyorkese statua della libertà ha nei confronti del colosso di Rodi e, sul numero scorso, quanto l'astronomia moderna si sia nutrita di intuizioni antiche). Che si condivida o meno il “continuismo” estremo di Russo, ciò che è importante sottolineare è la necessità di concentrarsi sui contenuti, e non soltanto sullo studio delle lingue antiche che li veicolano. Perché non imparare, oggi, in un liceo classico rinnovato - seguendo anche in questo caso una proposta di Russo - la geometria e gli strumenti della dimostrazione traducendo dal greco gli Elementi di Euclide? Anche il sistema di apprendimento del periodo umanistico-rinascimentale era legato all’idea che alcuni contenuti culturali sono imprescindibili, nel senso che nessun individuo che possa dirsi veramente libero li può ignorare. Oggi, in un periodo di deriva didattica astratta (in cui si sente spesso sostenere che per i futuri insegnanti è più importante apprendere metodi pedagogici generali invece che i contenuti specifici delle discipline che poi andranno a insegnare) questa lezione non va dimenticata. Con questo spirito bisogna vigilare su ciò che sta accadendo al nostro sistema scolastico. Nella Terza Pagina di questo numero, un filosofo e un matematico, Mario De Caro e Pietro Di Martino, riflettono sulle misure recenti a proposito delle nuove regole sul reclutamento degli insegnanti.