La sopraffazione delle minoranze
prestandosi ovviamente a un fedele adattamento, è tuttavia qualcosa in più di un semplice pretesto, e offre degli autentici spunti di riflessione.
Credo si possa dire, senza bisogno di un’approfondita analisi del testo, che Castellucci ha assunto come punto di partenza, nell’accostarsi al celebre studio ottocentesco sulle origini della democrazia americana, le radici di quest’ultima nella cultura egualitaria delle prime comunità puritane, con tutte le implicazioni di rigore morale che ciò comporta. E che abbia specialmente posto in luce le preoccupazioni di Tocqueville su quell’intima contraddizione del sistema rappresentativo che consiste nell’inevitabile prevalere del- le opinioni della maggioranza rispetto alle libertà individuali.
Il regista prende in considerazione due forme di sopraffazione delle minoranze: da un lato mostra una coppia di contadini puritani in cui la moglie, stremata dalle vane fatiche dei campi, dalla miseria e dalla fame, arriva a negare la capacità di Dio di ascoltare l e preghiere degli uomini, l o mette alla prova vendendo la propria bambina a una vecchia indiana per sfidarlo a intervenire come fece con Abramo impedendogli il sacrificio di Isacco, e dovrà essere punita dalla collettività dei confratelli. Dall’altro lato ascoltiamo due indiani della tribù Chippewa che intendono mantenere le loro tradizioni e non vorrebbero lasciarsi integrare.
Il regista e la sorella Claudia, coautrice dei testi, affrontano il problema anche, o prevalentemente, in una chiave linguistica: non a caso i due indiani si dicono costretti a imparare il vocabolario dei bianchi per non esserne soverchiati. La contadina puritana, come preda di un’oscura possessione, si mette a usare a sua volta parole indiane. E nella scena iniziale ragazze vestite da soldati reggono vessilli con le lettere che formano la scritta Democracy in America: spostando i vessilli, compongono degli anagrammi che paiono evidenziare le facoltà manipolatorie della lingua contrapposte, ad esempio, ai suoni inarticolati di una glossolalìa, un canto non verbale registrato in una chiesa Pentacostale dell’Oklahoma.
Accanto al tema del rapporto fra lingua e potere - già sviluppato, in Lingua imperii, da quei suoi indiretti discendenti che sono gli Anagoor - Castellucci indaga qui gli strumenti attraverso i quali il potere stesso si rappresenta. E alla tragedia greca quale specchio della democrazia ateniese – di cui è emblema un bassorilievo classico che appare alla ribalta - sostituisce l’invenzione di enigmatici rituali che sfumano dietro velari trasparenti, ragazze nude che danzano con la parrucca in testa, parate di figure vestite di rosso, pu- ritani dagli alti copricapi neri raccolti attorno a un aratro d’oro.
Lo spettacolo, che ha debuttato ad Anversa ed è poi approdato al Teatro Metastasio di Prato - dove l’ho visto - in attesa di passare all’Arena del Sole di Bologna, è stratificato e complesso, non sempre facile da decifrare. Mescolando suggestioni storico-sociali e soprassalti dell’inconscio, Castellucci evoca immagini di forte effetto, la visione primordiale della donna col corpo nudo coperto di sangue che cammina con la bimba nuda aggrappata alla schiena, il finale coi due indiani che escono di scena lasciando delle finte epidermidi di lattice appese a un sostegno come gusci vuoti. Lui nega ogni riferimento alla situazione odierna degli Stati Uniti: ma, considerata la materia, si fatica a dargli retta.
Democracy in America , di Romeo Castellucci, da Alexis de Tocqueville. All’Arena del Sole di Bologna l’ 11 e il 12