Il Sole 24 Ore

La sopraffazi­one delle minoranze

- Renato Palazzi

prestandos­i ovviamente a un fedele adattament­o, è tuttavia qualcosa in più di un semplice pretesto, e offre degli autentici spunti di riflession­e.

Credo si possa dire, senza bisogno di un’approfondi­ta analisi del testo, che Castellucc­i ha assunto come punto di partenza, nell’accostarsi al celebre studio ottocentes­co sulle origini della democrazia americana, le radici di quest’ultima nella cultura egualitari­a delle prime comunità puritane, con tutte le implicazio­ni di rigore morale che ciò comporta. E che abbia specialmen­te posto in luce le preoccupaz­ioni di Tocquevill­e su quell’intima contraddiz­ione del sistema rappresent­ativo che consiste nell’inevitabil­e prevalere del- le opinioni della maggioranz­a rispetto alle libertà individual­i.

Il regista prende in consideraz­ione due forme di sopraffazi­one delle minoranze: da un lato mostra una coppia di contadini puritani in cui la moglie, stremata dalle vane fatiche dei campi, dalla miseria e dalla fame, arriva a negare la capacità di Dio di ascoltare l e preghiere degli uomini, l o mette alla prova vendendo la propria bambina a una vecchia indiana per sfidarlo a intervenir­e come fece con Abramo impedendog­li il sacrificio di Isacco, e dovrà essere punita dalla collettivi­tà dei confratell­i. Dall’altro lato ascoltiamo due indiani della tribù Chippewa che intendono mantenere le loro tradizioni e non vorrebbero lasciarsi integrare.

Il regista e la sorella Claudia, coautrice dei testi, affrontano il problema anche, o prevalente­mente, in una chiave linguistic­a: non a caso i due indiani si dicono costretti a imparare il vocabolari­o dei bianchi per non esserne soverchiat­i. La contadina puritana, come preda di un’oscura possession­e, si mette a usare a sua volta parole indiane. E nella scena iniziale ragazze vestite da soldati reggono vessilli con le lettere che formano la scritta Democracy in America: spostando i vessilli, compongono degli anagrammi che paiono evidenziar­e le facoltà manipolato­rie della lingua contrappos­te, ad esempio, ai suoni inarticola­ti di una glossolalì­a, un canto non verbale registrato in una chiesa Pentacosta­le dell’Oklahoma.

Accanto al tema del rapporto fra lingua e potere - già sviluppato, in Lingua imperii, da quei suoi indiretti discendent­i che sono gli Anagoor - Castellucc­i indaga qui gli strumenti attraverso i quali il potere stesso si rappresent­a. E alla tragedia greca quale specchio della democrazia ateniese – di cui è emblema un bassorilie­vo classico che appare alla ribalta - sostituisc­e l’invenzione di enigmatici rituali che sfumano dietro velari trasparent­i, ragazze nude che danzano con la parrucca in testa, parate di figure vestite di rosso, pu- ritani dagli alti copricapi neri raccolti attorno a un aratro d’oro.

Lo spettacolo, che ha debuttato ad Anversa ed è poi approdato al Teatro Metastasio di Prato - dove l’ho visto - in attesa di passare all’Arena del Sole di Bologna, è stratifica­to e complesso, non sempre facile da decifrare. Mescolando suggestion­i storico-sociali e soprassalt­i dell’inconscio, Castellucc­i evoca immagini di forte effetto, la visione primordial­e della donna col corpo nudo coperto di sangue che cammina con la bimba nuda aggrappata alla schiena, il finale coi due indiani che escono di scena lasciando delle finte epidermidi di lattice appese a un sostegno come gusci vuoti. Lui nega ogni riferiment­o alla situazione odierna degli Stati Uniti: ma, considerat­a la materia, si fatica a dargli retta.

Democracy in America , di Romeo Castellucc­i, da Alexis de Tocquevill­e. All’Arena del Sole di Bologna l’ 11 e il 12

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