Controcanto sano al «mostro»
« Mi chiamo Teresa Ciabatti e ho quarantaquattro anni…egoista, superficiale, asociale… qualcosa nella mia vita è andato storto… incapace di coltivare amore, di costruire rapporti di fiducia… Mi chiamo Teresa Ciabatti… » . Nell’ultimo capitolo della Figlia più amata ritroviamo più volte reiterata questa formula, già incontrata nel corpo del romanzo, e che evoca subito l’amato Walter Siti di Altri paradisi. Ma qui l’aspirazione è ben diversa. Lei si chiama Teresa Ciabatti però « non come tutti». La sua è una esistenza gelosamente unica, né vuole farsi portavoce dell’Occidente sfinito o interprete della liquida postrealtà. La prosa, aliena da qualsiasi concettosità, non evita immagini da lirismo pop ( « La mia stagione è durata poco, quanto vive una farfalla?»), e si distende in un ritratto denso, straordinariamente nitido, del demone italiano per eccellenza: la Fami- glia (promessa di felicità e insieme spazio claustrofobico di conflitti). E lo fa attraverso l’invenzione di una voce narrativa personalissima, ossia quella di una bambina viziata, nevrotica, ferita, autodistruttiva, generosa ( ed è in parte la “voce infantile” che - veniamo informati - l’editor aveva contestato). La Teresa Ciabatti ormai adulta ha bisogno di questa voce, dunque di un palese artificio, per raccontare la propria educazione sentimentale - sotto un cielo costellato di nubi enormi che sembrano macerie - e la ineluttabilità di un destino. Non tanto una « auto- fiction sincera » , come ci viene promesso nel risvolto, quanto una autoconfessione recitata in falsetto, quasi regredita, e perciò paradossalmente autentica. L’autofiction è un genere che ha quasi esaurito la sua spinta propulsiva, ma qui ne viene corretto e rilanciato, attraverso quella invenzione originale. La saga famigliare, ambientata tra Orbetello e la Roma bene, si concentra poi nella rappresentazione di un “mostro” ( che corrisponde a una tipologia di italiano), e cioè il padre, detto il Professore: eccellente chirurgo e primario, massone, carrierista, bu- giardo, probabilmente golpista, e poi prepotente, benefattore, dissipatorio ( dilapida una ricchezza immensa). Certo, ci sono altre figure, ritratte in modo incisivo - tra cui il fratello gemello, l’amica, i compagni di scuola, e soprattutto la madre, o Reietta, eroina o vittima, un possibile controcanto “sano” al dispotismo malato del Professore ( vi si scontra, lo fa spiare da un’agenzia investigativa, prende le difese della figlia) - ma alla fine nessuna di queste figure riesce a oscurare Lorenzo Ciabatti, e la sua losca, debordante vitalità. La Teresa adulta che racconta la Teresa bambina - incerta se considerarsi la più amata o la meno amata ( forse entrambe le cose, come impara qualsiasi essere umano che indaga su di sé) - guarda attraverso di lei il mondo, raccontato in una miracolosa trasparenza: con i buoni e i cattivi, con il peso dell’immaginario che sem- pre sovrasta la realtà empirica: lei “si sente” bella, o perlopiù grassa e non attraente, ecc. ma sappiamo che si tratta solo di fantasmi, di un nebbioso, estenuato gioco di specchi. Nelle pagine del romanzo si aggira una presenza magica: una gallina bianca ( all’inizio corre per l’ospedale, poi appare in una misteriosa epifania o, ancora, uscita dal cilindro di un prestigiatore). Nell’ultima pagina, inseguita da tutti, entra in un cespuglio ed « esce per sempre dalla nostra storia » . Forse questa gallina è rimasta sempre lì, a fissarci negli occhi, sfuggente e nascosta come la verità dell’esperienza. Occorre solo riconoscerla, saperla snidare, anche con la menzogna e il sortilegio della autofiction.
Teresa Ciabatti, La figlia più amata, Mondadori, Milano, pagg. 218, € 18