Teorie della letteratura. Sì o no?
nale da risultare innocente. Quindi Bottiroli trova «misteriosa» la mia idea che la teoria sia causa di disastri. Gli rispondo: non ora, il disastro risale a qualche decennio fa.
La teoria qualche disastro lo ha creato credendo, per esempio, di sostituire la critica con una “scienza” del testo e della letteratura, spostando l’attenzione, nella didattica, dalla lettura libera e spregiudicata dei testi all’uso dell’utensileria analitica e metodologica.
La teoria ha creato questi danni in pratica, non solo in teoria. Oggi non li crea perché quasi non esiste, replica e rimastica teorizzazioni della prima metà del Novecento e per qualche buona ragione non trova più ascolto. La cosa di cui mi meravigliavo prendendo spunto dal libro La struttura e il mondo di Brugnolo, Colussi, Zatti e Zinato è che i suoi autori, pur non essendo dei veri teorici, non si siano ancora resi conto che divulgando teorie per l’ennesima volta non solo ripetono, ma ripetono a vuoto. Oggi il problema centrale negli studi letterari non credo che sia il bisogno di teorie, ma la necessità della critica.
Bottiroli ci spiega che cos’è “veramente” la teoria della letteratura. Io credo più urgente e interessante chiedersi che cos’è la critica letteraria. Perfino un filologo che ha creduto di essere un teorico perché era di moda, come Cesare Segre, alla fine si arrese, voltò le spalle alla struttural-semiotica e parlò di “ritorno alla critica”, un ritorno che fino a poco prima aveva guardato dall’alto in basso e con sospetto. I critici infatti non sono e non hanno mai voluto essere scienziati del testo poetico. Trovano inevitabile e onesto assumere un punto di vista personale e soggettivo, a volte fanno uso di autobiografismo letterario, dichiarano i propri limiti, a volte praticano con convinzione il giudizio di valore.
La critica letteraria non è asettica , non nasce in laboratorio e non è una disciplina accademica dai confini precisi. È un sapere empirico, misto, a volte impegnato, a volte quasi ozioso, proprio come la letteratura a cui si applica. La critica è infatti anche un genere letterario, cosa che lo studio della letteratura non è.
Per essere concreti, mi chiedo come faccia Bottiroli a ignorare quale è stato, di fatto, il ruolo della teoria nell’insegnamento. Succedeva all’incirca questo: prima si imparava un po’ di teoria, si memorizzavano definizioni generali e categorie analitiche e poi, più che leggere il testo letterario, lo si faceva passare attraverso uno o più filtri teorici precostituiti. Si cercavano nel testo le cose che si erano imparate nella teoria. La «cassetta degli attrezzi» diventava così più importante della lettura, dei testi e della loro presunta centralità.
Mi chiedo quanti siano stati i docenti e gli studiosi che abbiano sentito il bisogno non solo di usare gli attrezzi pronti nella cassetta, ma di inventarne di nuovi per capire fenomeni letterari non ancora catalogati. L’idea fondamentale che Franco Brioschi (a cui è dedicato il volume Il testo e l’opera) propose negli anni 70 e 80, è che si può anche decidere di isolare momentaneamente i testi, dato che si deve pur leggerli, ma un testo letterario è tale se diventa “opera”, cioè se il contesto e la storia culturali lo hanno fatto nascere e reso tale. Un testo senza contesto, non significa.
La teoria della letteratura ha una storia, dice Bottiroli, ha i suoi classici. E cita Benjamin, Bachtin, Sklovskij, Barthes. Autori che citavo anche io, ma come classici della critica. Lui chiama teoria ciò che io chiamo critica. Che i critici ogni tanto (se serve) teorizzino, è naturale, almeno per alcuni. Ma un critico è qualcosa di più che un teorico della letteratura, o qualcosa di meno. Un critico non pretende di “scientificizzare” la lettura e l’atto critico. Quello che i critici scrivono e hanno scritto è una mescolanza di idee, modi di leggere, problemi morali o politici, proposte militanti circostanziate, ermeneutica “in situazione” e polemica ideologica, gusti e passioni personali. Chiamare tutto questo teoria, caro Bottiroli, è «in larga misura privo di fondamento», se non «totalmente errato».
Si potrebbe aggiungere, volendo, che nell’insegnamento universitario c’è poco posto per la critica, attività quasi impossibile se non è anche critica della cultura, delle istituzioni e della società. Proprio così. La teoria nelle università serve un po’ troppo spesso a sbrigare con efficienza tecno-burocratica una certa quantità di lavoro (esami, tesi, produzione scientifica). Ma l’idea così trasmessa o suggerita è che leggere letteratura, di per sé e senza altri scopi, sia qualcosa di futile e di improduttivo. È per questo che fare critica passa per essere una specie di vizio soggettivistico e anarcoide, che non rientra nel mansionario delle professioni previste.
– Alfonso Berardinelli