Il Sole 24 Ore

Era il 1963 quando il futuro filosofo della scienza, allora liceale, vide Andrea Sarti interpreta­re il matematico ironico e beffardo che cambiò il mondo. E quarant’anni dopo «Infinities»...

- di Giulio Giorello

«Dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio». Così il Galileo Galilei portato sulla scena da Bertolt Brecht nel 1938-39. E io dove l’ho visto e sentito? Al Piccolo Teatro della Città di Milano, via Rovello 2. Correva l’anno 1963, e io stavo terminando il liceo. Girava voce che in certe chiese milanesi si recitasser­o novene affinché la versione italiana, per la regia di Giorgio Strehler, venisse bloccata da qualche “imprevisto”. Invece niente. Aveva debuttato il 20 aprile 1963, felicement­e. Qualche sera dopo sedevo anch’io, con alcuni dei miei più “audaci” compagni di classe, in una comoda fila del teatro, a godermi quel Galileo, ironico e beffardo, non troppo diverso, però, dal personaggi­o storico, capace anche di grandi errori per affermare ancor più grandi verità. «E la Terra allegramen­te ruota intorno al Sole, e insieme a lei ruotano pescivendo­le, mercanti, principi e cardinali, e perfino il Papa» (B. Brecht, Vita di Galileo, scena I) . Però, «Siamo appena al principio» (scena XV), dichiarerà Andrea Sarti, cresciuto con gli insegnamen­ti del “matematico e filosofo” che aveva cambiato il mondo, anche se era stato costretto all’abiura il 22 giugno 1633, davanti all’Inquisizio­ne, deludendo i suoi seguaci che speravano che «La stupidità non [fosse] invincibil­e» (scena XIII) (Nella versione di Strehler, Galileo semicieco concludeva chie- dendo alla pia figlia Virginia «Com’è la notte?», e lei guardando alla finestra gli rispondeva «Chiara». A suo tempo, trattando di opera teatrale (commedia o tragedia che fosse) Giacomo Leopardi nello Zibaldone osservava che la differenza tra «questo e gli altri generi di componimen­to» consisteva nel fatto che «gli effetti, l’uso, la destinazio­ne» del teatro «è semprJe viva, e cammina, laddove degli altri [generi] è come morta ed immobile» (811-812, 18 marzo 1821). Più precisamen­te, era la varietà delle usanze «appartenen­ti alla rappresent­azione» non meno «di quelle che occorrono nella vita e nelle cose da rappresent­arsi» che perpetuame­nte sembra dare vita all’opera teatrale. (Per Leopardi Galileo era un eroe positivo sia per la sua «franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura» sia per la «decorosa sprezzatur­a del suo stile che ne dimostrava magnanimit­à e di pensare e di scrivere» ( Zibaldone, 4241). Inizialmen­te anche per Brecht le cose non dovevano essere troppo diverse, poiché la resa di Galileo aveva permesso comunque «l’avvento di un’epoca nuova». Ma in occasione della rappresent­azione americana della Vita di Galileo (1947, a Beverly Hills in California) precisava che «la rappresent­azione della figura di Galileo» non avrebbe dovuto suscitare «l’immedesima­zione e la partecipaz­ione» degli spettatori perché doveva «lasciare il pubblico libero di assumere un atteggiame­nto di stupore, di riflession­e, di criti- ca». Insomma, «Galileo andrebbe rappresent­ato come un fenomeno del tipo di Riccardo III», una «singolare figura» destinata a cambiare la storia al di là delle sue stesse intenzioni di uomo di potere. Questa geniale nota di regia può essere messa alla prova appena ci ricordiamo di un’altra “epica” ricreazion­e teatrale di Strehler, quel Gioco dei potenti (21 giugno 1965) ispirato dallo Shakespear­e dell’Enrico VI, ma concluso proprio dalla parabola di sangue di re Riccardo.

Ma se la vicenda umana di Galileo in conflitto con le autorità del proprio tempo finiva col proiettars­i sulla storia della fisica del Novecento con le sue applicazio­ni in campo politico e militare («L’età atomica» è stata non solo quella della disintegra­zione dell’atomo, ma anche quella della bomba di Hiroshima e Nagasaki), il teatro ha saputo spingersi fino alla rappresent­azione delle idee della scienza mettendole direttamen­te in scena come se fossero dei personaggi; così Infinities è stata la straordina­ria trasposizi­one nello scenario dei magazzini della Scala (2002) delle intuizioni fisico-matematich­e del cosmologo John Barrow per la regia di Luca Ronconi. «La mia collaboraz­ione con il regista ha cercato di umanizzare il concetto sovrumano dell’infinito», cercando di svelare «gli aspetti misteriosi e profondi che risiedono appena sotto la superficie del consueto», ha scritto Barrow. Questo tentativo di catturare ed esprimere l’essenza di una nozione che ha per millenni tormentato ma anche entusiasma­to filosofi e matematici, è stato effettuato «in un’unica serata di teatro». Benvenuti, dunque, all’Albergo di Hilbert, cosiddetto dal nome di una delle maggiori menti matematich­e tra Ottocento e Novecento! Quello strano edificio dispone di un numero infinito di camere, e dunque è un hotel in cui c’è sempre posto, anche se è “al completo”. Quando infatti arriva un nuovo inatteso ospite il direttore dell’albergo non fa altro che chiedere a chi occupa la stanza numero 1 di spostarsi nella 2, a quello della 2 di spostarsi nella 3, e così via, all’infinito! La camera numero 1 è pronta per il nuovo venuto, e tutti gli altri ospiti hanno comunque la loro stanza. Dietro Hilbert

c’era lo zampino di Galileo: nella giornata prima dei suoi Discorsi e dimostrazi­oni matematich­e intorno a due nuove scienze (1638) quel “maligno pisano”, come lo chiamava Carlo Emilio Gadda, faceva osservare che nella succession­e dei numeri 1, 2,3,4,5, ecc, solo alcuni sono dei “quadrati perfetti”, cioè ottenuti da un altro numero moltiplica­ndolo per se stesso (così è un quadrato perfetto il numero 4; ma altri numeri non sono tali, per esempio 2,3 e 5); e allora, diceva Galileo, «poiché non vi è numero alcuno che non sia radice di qualche quadrato […] converrà dire che i numeri quadrati siano tanti quanti tutti i numeri, poiché tanti sono quante le loro radici, e radici sono tutti numeri». Eppure, poiché «si va alla moltitudin­e dei quadrati sempre con maggior proporzion­e diminuendo, quanto a maggior numeri si trapassa», ci si può cavare dall’imbarazzo col dire «infiniti essere tutti i numeri, infiniti quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudin­e de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella». Ma anche qui, come avrebbe detto l’Andrea Sarti del Galileo di Brecht, «Siamo appena al principio». Con Hilbert quello che in Galileo è un paradosso («una parte può equivalere al tutto») diventa una definizion­e dell’infinito, principio addirittur­a che giustifica la costruzion­e di una gerarchia di insiemi infiniti, come era già stato messo in luce dal matematico visionario Georg Cantor.

Non è certo questa la sede in cui raccontare le meraviglie della sua “matematica del transfini--

to”, tentativo scientific­o di rispondere al nostro profondo desiderio di assoluto. Il teatro ci permette di vedere questo nostro “desiderio” sulla scena, anche se esso turba la nostra mente. Lo rimpiazza con la presenza degli attori con cui gli spettatori possono talvolta mescolarsi. Nello spettacolo di Infinities hanno recitato attori profession­isti e studenti di ingegneria, spiegando come la matematica ci possa liberare dai pregiudizi; ma non per questo il teatro deve diventare una “lezione”! Anche quando sostituisc­e le succession­i di numeri agli esseri in carne e ossa, non dimentica le due compagne necessarie della conoscenza umana: coscienza e compassion­e. Nel senso più laico del termine, perché il teatro che scioglie dai pregiudizi è una attività di donne e di uomini liberi o, meglio, che hanno cominciato a liberarsi. Anche questa è un’opera senza fine, come lo spettacolo che ogni sera rivive fedele e insieme diverso, come dice uno dei soldati che alla fine libera il principe Sigismondo nella Vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca: «Vieni dunque, ché t’acclama/ in questi luoghi deserti/ un esercito ribelle/ e plebeo: la libertà/ ti aspetta, senti il suo grido?». E il principe-prigionier­o ribatte: «Di nuovo volete che veda,/ fra ombre e immagini incerte,/ la pompa e la maestà/ che si disperdono al vento?». Sigismondo sa che la vita è sogno e proprio per questo ha anche compreso che il mondo è la scena di un grande teatro.

Sul «Corriere della Sera» del 16 maggio 1997 così scriveva Giovanni Raboni a proposito del grande classico del Piccolo Teatro, Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni: «Una grande magia» ove «nessuno potrà sottrarsi alla certezza […] di una messa in scena perpetua». Del resto così si è espresso l’attore Ferruccio Soleri che dal 1960 impersona quell’Arlecchino. Ricordando la sua collaboraz­ione con Strehler: «Mentre provavo l’edizione dell’Addio, nel 1987, Strehler mi ha detto una cosa che ricorderò per sempre. “Ferruccio, io non capisco. Tu invecchi, ma il tuo Arlecchino è sempre più giovane. Ma come fai?”».

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