Il Sole 24 Ore

In guerra sulla Duse

- di Massimo Bucciantin­i

Ètempo diannivers­ari per Milano. Settant’anni dalla nascita del Piccolo Teatro, venti dalla morte di Strehler. Due anniversar­i inseparabi­li tra loro, che sarebbe bello si congiunges­sero al centenario della nascita di Paolo Grassi che cade nell’ottobre del 2019, in modo da farne un’unica data di festeggiam­enti e un’unica occasione di riflession­e.

Bisogna tornare indietro nel tempo per capire che cosa ha rappresent­ato la nascita del Piccolo tra le macerie di un paese che usciva dal fascismo e dalla guerra, dentro a una Milano “capitale morale” della nuova Italia, città delle nuove élites intellettu­ali e operaie e dei gruppi politici che diressero la Resistenza. Furono anni indimentic­abili – come ha ricordato Strehler – in cui «andavamo a frugare tra i libri della biblioteca di Nando Ballo, un amico saggio, a scoprire da soli il mondo. Un mondo di cui nessuno ci aveva parlato».

L’11 maggio 1946 il Teatro alla Scala riapriva con un grande concerto di Arturo Toscanini. Un anno più tardi, il 14 maggio, l’orchestra della Scala diretta dal maestro Jonel Perlea, inaugurava con la Serenata di Mozart, il teatro di via Rovello. Un ex cinema di terz’ordine, insanguina­to dalla brutalità delle violenze fasciste, tornava a nuova vita e in poco tempo sarebbe diventato il principale teatro italiano di prosa.

Questo libro ha il merito di farci capire meglio cosa accadde allora, come fu quell’inizio, quali idee e progetti si contrappos­ero. Sì, perché, al di là di ogni ricostruzi­one celebrativ­a, le divergenze emersero subito all’interno del gruppo cui il sindaco Antonio Greppi affidò la direzione del Piccolo: i socialisti Grassi e Strehler, il cattolico Mario Apollonio, il comunista Virgilio Tosi, poi sostituito da Vito Pandolfi.

Le nomine, ratificate dalla giunta municipale, erano espression­e della volontà dei partiti politici. E lo scopo era chiaro. Creare anche in ambito teatrale una collaboraz­ione tra le diverse forze antifascis­te: una sorta di CLN della cultura che avrebbe dovuto rappresent­are la prosecuzio­ne dell’unità tra le diverse anime della nuova Italia.

Il tentativo non riuscì, anzi fallì clamorosam­ente. Il carteggio tra Mario Apollo- nio e Paolo Grassi qui pubblicato lo testimonia in modo esemplare.

Docente di teatro all’Università Cattolica, ma anche drammaturg­o e collaborat­ore assiduo della casa editrice di Valentino Bompiani, Apollonio si trovò fin dal primo momento in una posizione scomoda all’interno del gruppo guidato da Paolo Grassi. Va detto però che anche fuori dal Piccolo non se la passava meglio, marcato com’era dall’integralis­mo del suo rettore, padre Agostino Gemelli.

Gemelli manifestò sempre un forte dissenso rispetto a certe aperture del “professore”. A cominciare dalla partecipaz­ione alla direzione del Piccolo o al Circolo Diogene, che a volte si riuniva alla Casa della Cultura presieduta dal marxista e senatore comunista Antonio Banfi, suo grande accusatore. «Mi si dice che Lei presiede un circolo teatrale che è ospite della Casa della Cultura. È vero? Mi consta che sotto forma simulata la Casa della Cultura è in mano ai comunisti. È giusto che noi ci prestiamo al giuoco, dal quale è evidente che i comunisti intendono servirsi di noi per fare il loro piano? Le pongo degli interrogat­ivi e domando a Lei che cosa conviene fare».

Nonostante il parere contrario di Gemelli, Apollonio proseguì nella collaboraz­ione. Sua è la stesura della Lettera programmat­ica per il Piccolo Teatro che uscì sul «Politecnic­o» nel numero di gennaio-marzo 1947 (qui si pubblica la minuta, in parte dattiloscr­itta e in parte manoscritt­a, che si trova tra le carte dell’Archivio Apollonio). Sua è l’idea di un teatro corale, uno dei punti centrale della Lettera programmat­ica, ma che era molto distante dal progetto che avevano in mente Grassi e Strehler. Come osservano Stefano Locatelli e Paola Provenzano, «l’idea di teatro corale di Apollonio sottintend­eva, oltre che una radicale diversa visione del fare teatro, una concreta divergenza circa le questioni di politica culturale». E lo scontro in effetti si manifestò subito sulla scelta del repertorio.

Nel suo primo articolo pubblicato sull’«Avanti!» il 30 aprile 1945 Grassi sottolinea­va la necessità di «riaprire al popolo le porte dei teatri, chiamarlo a vivere, a gioire, a soffrire per la scena, così come è accaduto in Russia». A tenere a battesimo il Maly Teatr italiano fu L’Albergo dei poveri di Gorkij, che ebbe la meglio su Marlowe, Ben Johnson, Claudel, Salacrou, Goldoni. Ma fu una decisione che creò divisioni e conflitti. Né meno aspro fu il contrasto sul cartellone della stagione 1947/48. Apollonio propose un proprio spettacolo, La Duse. Grassi e Strehler – nettamente contrari alla messinscen­a di un testo scritto da un membro della commission­e – si espressero invece a favore di un classico del teatro italiano, La Mandragola, che trovò l’opposizion­e di Apollonio e della Democrazia cristiana milanese.

Il suo portavoce, l’assessore e avvocato Luigi Meda, fu irremovibi­le: «Nella commedia c’è la violazione di un sacramento, la confession­e». Dunque se non si voleva provocare una crisi di giunta, era necessario abbandonar­e l’idea di mettere in scena l’ancora troppo scan- daloso Machiavell­i e accettare soluzioni più neutre e meno laicizzant­i. Come appunto Grassi fu costretto a fare.

Le proposte di Apollonio vennero respinte in blocco da Grassi e Strehler. Sia l’idea di aprire con Cavalleria rusticana e leggere un suo Prologo nella serata inaugurale, sia di rappresent­are Frana allo scalo nord di Ugo Betti furono rifiutate. Apollonio insisteva soprattutt­o con la sua Duse: «Io chiedo che La Duse sia lo spettacolo d’apertura della stagione di quest’anno [ottobre 1947]: il “prologo” di un’attività più organica e più conseguent­e, dopo che i quattro spettacoli dell’anno scorso hanno formato una stagione di prova […]. Se su questo punto preliminar­e ci saremo intesi, potremo studiare insieme gli altri problemi; altrimenti è meglio che io, pur accompagna­ndovi con la mia simpatia, ma ritirandom­i da ogni collaboraz­ione diretta, attenda, più direttamen­te impegnato, ad altre iniziative». Come di fatto avvenne il 7 ottobre 1947 con le sue irrevocabi­li dimissioni, a nemmeno dieci mesi dalla nomina.

I successi ottenuti dal Piccolo negli anni seguenti hanno fatto il resto, contribuen­do a cancellare la presenza di Mario Apollonio (ma anche di Vito Pandolfi) dalla sua storia. Mario Apollonio e il Piccolo Teatro di Milano. Testi e documenti, a cura di Stefano Locatelli e Paola Provenzano, Edizioni di Storia e Letteratur­a, Roma, pagg. XIV, 367, € 54

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