Controinformati e felici
«Tutti a casa», «PIIGS» e «Merci Patron!»: narrano M5S, il movimento antineoliberista e Arnault, patron del lusso, in barba al politically correct
Uno è un prodotto televisivo di qualità, l’altro un volenteroso film militante, il terzo un’irriverente operazione di sabotaggio audiovisivo, campione d’incassi in Francia. Tutti a casa. Inside Movimento 5 Stelle di Lise Birk Pedersen, PIIGS di Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre e Merci Patron! di François Ruffin arrivano tutti insieme nelle sale italiane nella speranza che le primarie del Pd, le elezioni francesi e le ricorrenze del 25 aprile e del primo maggio stimolino interesse e sbigliettamenti, ingenerando però, involontariamente, l’impressione che si tratti di film d’occasione. Non è così: nelle loro differenze estetiche e produttive, i tre documentari testimoniano, (oltre alla presenza di un progetto a lungo termine) un interesse autentico per la politica e le sue manifestazioni, molte delle quali particolarmente adatte ad essere portate sullo schermo.
L’attitudine dei politici a calcare la scena pubblica li rende i protagonisti ideali per chi vi si accosti con discrezione e pazienza. Il tempo e la consuetudine consentono al documentarista di cogliere battute eloquenti o anche solo sfumature significative, piccole crepe che si aprono sulla superficie delle autorappresentazioni più collaudate e che permettono di intuire la complessità nascosta dietro le dichiarazioni. Così fu per alcuni dei capisaldi del documentario moderno – si pensi a Primary e Crisis di Robert Drew, con al centro John Fitzgerald Kennedy, e 1974, une partie de campagne di Raymond Depardon, sulla vittoriosa campagna presidenziale di Valéry Giscard d’Estaing – e così è, fatte le dovute proporzioni, per un prodotto senza grandi ambizioni cinematografiche come Tutti a casa. Alle prese con i Cinque stelle appena eletti in parlamento, Li-
| Beppe Grillo in una scena di «Tutti a casa» di Lise Birk Pedersen
se Birk Pedersen non sembra avere problemi a portare sullo schermo gli autentici umori dei militanti, con tanto di incomprensioni e mugugni. Concentrata su Paola Taverna, Alberto Ariola e Luis Alberto Orellana (più discosto il giudice antimafia Mario Giarruso), la regista danese raccoglie i frutti di un casting azzeccato e riesce a trovarsi nel posto giusto ogniqualvolta si tratti di cogliere resistenze nella catena di comando del movimento e di raccontare i momenti di crisi.
E allora, la disarmante dichiarazione di Paola Taverna che ammette d’essere finita quasi per caso in Senato, la faccia lunga di Ariola un momento dopo aver votato l’espulsione di Adele Gambaro, l’incapacità di Luis Alberto Orellana di replicare al buon senso della moglie che commenta la sua espulsione sono altrettante dimostrazioni di un lavoro documentaristico scrupoloso anche se, come dimostra lo svarione sulla nascita della democrazia, non esente da leggerezze. Corretto nel circoscrivere il campo d’indagine e a riconoscere sfumature in un mondo che siamo abituati a pensare in bianco e nero, il film trova nella scelta di rimanere nel palazzo anche il suo limite: nonostante la distanza tra militanti e classe dirigente sia meno accentuata nel M5s che altrove, a mancare è uno sguardo approfondito sulla società che esprime il movimento, le sue correnti profonde, le sue contraddizioni nascoste.
Chi invece sceglie di misurarsi con qualcosa
che si sottrae sistematicamente alla visibilità è PIIGS. La politica economica è attività da luoghi separati, gli indicatori congiunturali astrazioni e le variabili strutturali filosofia. Tutto invisibile o quasi all’occhio della macchina da presa. E i tre autori (che non hanno l’estro di Derek Jarman quando visualizzava Wittgenstein) finiscono ragionevolmente anche se un po’ pre- vedibilmente per concentrarsi sulle parola. Introdotto da un esornativo storytelling recitato da Claudio Santamaria e contrappuntato dalle vicende di una cooperativa sociale in crisi, il corpo del film è composto di interviste che si intrecciano articolandosi in un unico discorso e soprattutto un’unica tesi. Se le misure economiche messe a punto dalla Ue dopo la crisi del 2007 hanno aumentato disoccupazione e povertà la colpa è delle misure di austerità, del fiscal compact e dell’avversione delle banche centrali per ogni politica espansiva neo keynesiana. È proprio in questa scelta di campo, parziale e partigiana, che risiede la maggiore qualità del film. Cutraro, Greco e Melchiorre non si curano di opporre diverse opinioni a quelle espresse da Chomsky, Mosler, Varoufakis, Fassina, Rampini e Barnard. Se l’ortodossia neoliberista ha accesso alle platee maggiori, allora vale la pena di prendersi il tempo per articolare le tesi antagoniste. Capirne le ragioni ed eventualmente prenderne le distanze. Una scelta di campo che mette efficacemente in discussione la logica della par condicio, proponendo un ragionamento più ampio degli sterili scambi di battute dei talk show televisivi e che elegge il cinema a luogo deputato alla controinformazione.
Se spiegando quello che in tv non si vede, oppure si vede male, PIIGS indossa i panni professorali del corso di formazione (o di partito), al contrario Merci Patron! se ne frega di dimostrare alcunché. Se la politica è spettacolo e l’economia è ideologia, allora tanto vale buttarcisi in mezzo e scardinare le regole di ogni buona distanza documentaristica e fabbricare l’evento – nientemeno che un ricatto a Bernard Arnault, proprietario del gruppo del lusso LVMH – che si vuole filmare. Più che un documentario Merci Patron! è una dichiarazione di guerra, che maneggia il paradosso con disinvoltura e utilizza ogni mezzo per mettere in difficoltà l’avversario. Minacciando di dare notorietà nazionale alla storia del licenziamento di un operaio di Amiens, François Ruffin, autore sempre in campo come Michael Moore, convoca l’addetto alla sicurezza di Arnault e ottiene per Serge un contratto a tempo indeterminato a Carrefour. Tutto registrato dalle videocamere nascoste nel tinello e ora esposto al ludibrio delle folle – il film ha staccato mezzo milione di biglietti in Francia – di spettatori. Anche se la rivincita mediatica è spesso effimera, mostrare il re nudo fa sempre un certo effetto e il film, oltre al pubblico, ha trovato anche i favori della critica e delle istituzioni del cinema francese che l’hanno premiato con il César.